Il caso Molina di Varese fra la strada dei soldi e la “via della seta“

Il processo è agli sgoccioli e la difesa cerca di giocare la carta del profilo privatistico della fondazione, così da giustificare gli investimenti con obbligazioni di Rete55 e Mata

tribunale varese

Da una parte la necessità di garantire la protezione del patrimonio di una fondazione importante per la città che sul piano economico rappresenta il confluire negli anni di tanti lasciti e donazioni, e che sul piano etico si traduce nell’aiuto ai più deboli, agli anziani di Varese. Dall’altra la conservazione di questo patrimonio, che nel 2015 ammontava a circa 10 milioni di euro fra liquidità ed investimenti, che in quel periodo stavano – come i risparmi di milioni di italiani – su di una china pericolosa: era il periodo dei “bail-in“ (letteralmente “salvataggio interno”), cioè la possibilità in caso di crac bancario di rifarsi anche sui depositi dei clienti tutelati però per soli 100 mila euro di patrimonio. Una temperie già ricostruita nel corso delle udienze sul “caso Molina” (due imputati per peculato e concorso in peculato, l’allora presidente Christian Campiotti e l’imprenditore di Rete55 Evolution Lorenzo Airoldi), ma nell’udienza di mercoledì ricostruita dai tecnici chiamati come testi della difesa per capire come si muovessero le mani nelle casse della Fondazione e le teste di chi doveva investire quei soldi.

SETTE ANNI FA
La ricostruzione di quel periodo ha riguardato movimenti di capitali, gli investimenti e loro nature: elementi interessanti per comprendere in che modo un soggetto come Fondazione Molina cerca di preservare il prezioso capitale, anche attraverso gli strumenti finanziari offerti dal mercato. Ma, sullo sfondo, la domanda che ha pervaso da sempre la natura di questo processo: è il Molina soggetto di diritto pubblico o privato? Il suo presidente è un pubblico ufficiale – soggetto ai precetti che le leggi impongono anche per il semplice “toccare“ il danaro della collettività – o un manager (sottoposto anche in questo caso alle leggi, ma quelle più che altro del mercato)? Sapremo in che modo ha ragionato la corte con le motivazioni, che arriveranno certamente in seguito alla sentenza attesa dopo il 14 luglio, data fissata per la chiusura del dibattimento del processo che ha sempre visto in aula i due imputati e dove hanno sfilato ex vicesindaci di Varese, vertici di Ats, manager e consulenti di alto profilo oltre all’attuale presidente della Regione Attilio Fontana (che presentò nel 2016 l’esposto alla Finanza da cui partirono le indagini), tutti come testimoni.

LA VIA DEI SOLDI
Tornando all’udienza dinanzi al Collegio, il consulente del Molina ascoltato in aula, il dottor Enrico Bigli che per anni diede il suo contributo al miglior impiego del “tesoretto Molina“ ha specificato chiaramente che la linea consigliata per gli impieghi dei capitali è sempre stata quella della tutela degli investimenti e dell’esposizione mai superiore a quella assicurata dai titoli di Stato (bassi rendimenti, sì, ma anche basso limiti di rischio). Bigli è stato consulente «pro bono» del Molina per anni, dal 206 al 2015, anche nel periodo dei rischi d’insolvenza bancaria, rischio che gravava in particolare sugli istituti dove giacevano i fondi della Fondazione, vale a dire Mps e Veneto Banca: «Sì, abbiamo cercato di tutelare il capitale da quel tipo di rischio» (di insolvenza bancaria ndr), e alla domanda se vi fosse la possibilità di investire anche con un livello di rischio maggiore il consulente ha risposto positivamente, ricordando però di aver raccomandato di «normare» la regola del rischio d’investimento basso (agganciato al profilo dei titoli di Stato). Bigli però nel 2015 lascia la fondazione, con l’arrivo del presidente Campiotti. Un anno dopo alla dipartita dell’allora direttore generale Andrea Segrini, anch’egli sentito in aula mercoledì, che venne licenziato dal Cda nel 2016. Segrini ha confermato che Molina faceva investimenti seguendo gli indici “Mifid“ (una classificazione dei profili di rischio a seconda della clientela) «seguendo cioè investimenti che dovevano avere racing pari o uguale ai titoli di Stato». Fra i testi è stato sentito anche Guido Bonoldi, presidente del Molina dall’ottobre 2018 ad agosto 2021 che ha ricordato il rientro dal prestito obbligazionario, con gli interessi, per Rete55 evolution mentre per l’altra obbligazione accesa da Mata spa per 500 mila euro, dopo uno stop delle rate per il 2020, il debitore ha puntualmente onorato le scadenze. Quali investimenti sta facendo oggi il Molina? «Ricordo di un investimento acceso in Btp decennali. Un investimento attivato previa decisione collegiale dal cda», ha specificato Bonoldi.

LA VIA DELLA SETA
Ha reso poi testimonianza anche il manager Pierantonio Idini, imprenditore e consulente nel ramo media e cinema, di fatto il tramite del progetto di acquisizione di Rete55 da parte di investitori riconducibili al governo della Repubblica popolare cinese. L’emittente di Gornate Olona aveva specificato tramite l’editore Lorenzo Airoldi interrogato nella precedente udienza di avere la necessità di fondi (in particolare i 450 mila euro ricevuti a titolo di prestito obbligazionario da Molina) per poter consolidare gli asset del proprio gruppo in vista della possibile acquisizione da parte dei compratori cinesi. Lo stesso Idini ha spiegato in aula il piano: «L’Italia rappresenta un terminale fondamentale per la Cina poiché è qui da noi che arriva il canale finale della “cintura“ che parte dall’Asia e arriva in Europa. L’idea è quella di avere in ogni Paese attraversato dalla via della Seta terminali televisivi o radiofonici a vocazione economica. Per questo avevamo pensato a Rete55. Avevamo già versato la caparra di 100 mila euro per l’acquisizione. Ma alla fine il progetto ebbe una brusca battuta di arresto per via delle inchieste della guardia di finanza. Il governo cinese non gradisce implicazioni giudiziarie legate a suoi investimenti, quindi il progetto sfumò».

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 23 Febbraio 2022
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