“Mio figlio messo in castigo all’asilo nella stanza buia”: educatrice a giudizio a Varese

La mamma in lacrime davanti al giudice: “Continuava a chiedere scusa per ogni piccolo errore che faceva”. Tredici le parti offese, cinque si sono costituite parte civile. Il difensore: “Erano metodi educativi”

giudiziaria

Alla fine era inevitabile che si emozionasse. Fino alle lacrime, tanto che il pubblico ministero le ha chiesto, martedì mattina in aula dinanzi al Collegio, se volesse fermarsi. «No, vado avanti». È lei, madre che ha ritirato il figlio di due anni e mezzo da una scuola dell’infanzia privata di Cantello (non in un asilo nido come riportato in una prima versione dell’articolo ndanell’ottobre 2018 poiché qualcosa nel comportamento del piccolo non andava, è lei che ha parlato diffusamente di quegli episodi capaci di metterla in allarme.

Ed è scoppiata a piangere proprio quando ha raccontato di aver visto le immagini strappate dai carabinieri del nucleo operativo di Varese all’intimità di quelle mura, microcamere messe dagli investigatori nella struttura dove l’educatrice lavorava, una donna di 35 anni oggi imputata. «Preso a botte in testa strattonato, messo nello stanzino al buio, con la macchinina nascosta dietro la schiena per la paura. Messo nello stanzino del castigo, dove venivano riposte le tazze da the».

Ancora lacrime. Il reato contestato nel capo d’imputazione è di “maltrattamenti contro famigliari e conviventi”, che prevede da tre a sette anni e una pena aumentata fino alla metà se il fatto è aggravato a danno di minori. È un reato che riguarda i “famigliari”, un concetto che la legge ritiene essere per esempio mutabile anche per gli adulti cui è affidata l’autorità su soggetti ad essi affidati per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte. Proprio come contestato all’educatrice. Una vicenda non emersa nelle cronache dal momento che le indagini svolte dai militari con estrema discrezione son portarono all’emissione di misure cautelari di qualsivoglia natura: l’educatrice, assistita già ai tempi dall’avvocato Massimo Tatti, lasciò la struttura.

Ma la macchina della giustizia ha proseguito il suo passo arrivando al dibattimento. Le parti offese sono 13 e gli episodi contestati riguardano un periodo che va dal 2018 a parte del 2020. In mattinata sono stati sentiti militari operati e alcuni genitori, in particolare la donna che fece partire l’azione penale con la denuncia ai carabinieri, i quali su ordine della magistratura disposero indagini ad ampia copertura tecnologica, con le microcamere, rilievi divenuti oramai una costante in diverse altre indagini su temi analoghi.

«Ho ritirato mio figlio dall’asilo dopo diversi sospetti. Poi un giorno ho trovato un grembiule con una manica strappata, e ho detto basta. Sono andata dai carabinieri. Mio figlio ha cominciato a farsi la pipì a letto. Si toccava il pisellino e chiedeva perdono, ho dovuto portare mio figlio dalla neuropsichiatra per un mese e mezzo ed ora è riuscito a uscirne. E ancora oggi ogni volta che sbaglia continua a chiedere perdono». La donna ha spiegato di essersi accorta di problemi comportamentali del figlio ma di aver ricevuto solo risposte elusive da parte del bambino: «Mi diceva, mamma non posso dirtelo questo segreto».

Il piccolo, al momento dei fatti frequentava la sezione “primavera“ della struttura. Un’altra madre escussa in aula ha parlato di «trascinamenti, cibo messo in bocca forzatamente», riferendosi a quanto appreso in sede di indagini, e al fatto che «l’insegnante continuava a ripeterci di non andare a prendere i bambini prima del tempo, specialmente quando giocavano all’aperto: probabilmente non voleva che noi potessimo renderci conto di cosa accadesse». Per il difensore della donna, l’avvocato Massimo Tatti, il motivo di quest’ultima richiesta stava nell’evitare che i bimbi potessero avvicinarsi alle auto in movimento, riconoscendo quelle dei genitori. «Poi esiste una argomentazione che sosterrò in giudizio, e che è relativa ai metodi educativi utilizzati dalla mia assistita, che erano tutt’altro che maltrattamenti. Anzi, era molto apprezzata dalle colleghe».

Non è dell’avviso l’avvocato Anna Maria Brusa che rappresenta la maggioranza delle parti civili del processo (che sono 5, una delle quali difesa dal collega Paolo Bossi): «Dimostreremo invece che quei comportamenti sono inopportuni. E lo faremo per assecondare l’esigenza di ricevere giustizia da parte di tutti questi genitori che oggi hanno atteso il termine dell’udienza fuori dall’aula». La prossima udienza è stata fissata per il 13 settembre.

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 17 Maggio 2022
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