Con uno smart worker in famiglia si risparmiano 1600 euro all’anno
Secondo Confesercenti lo smart working produrrà effetti dirompenti a livello occupazionale, sociale e dei comportamenti di spesa con effetti asimmetrici su imprese, città e famiglie
Dopo due anni di pandemia cambia il lavoro, cambiano le città e si temono effetti dirompenti su imprese e centri urbani. Ci aiuta a far luce su queste dinamiche, Confesercenti con un importante studio che fornisce nuovi dati e stime sulle implicazioni economiche dell’adozione massiva dello smart working in Italia. Il focus è sugli effetti significativi sul sistema imprenditoriale e sulle attività che gravitano intorno ai luoghi fisici di lavoro, e che si prevede produrranno ulteriori cambiamenti sull’organizzazione delle città, sui tempi di vita e sui trasporti. L’associazione, che rappresenta 350 mila imprese del commercio, del turismo e dei servizi, dell’artigianato e della piccola industria, conclude che servono politiche attive e urgenti per governare la transizione che limitino gli effetti negativi e valorizzino quelli positivi.
Vediamo in dettaglio quanto emerge dall’analisi e dagli scenari paventati.
SMART WORKERS QUINTUPLICATI
Nel 2019 in Italia lavorava prevalentemente o occasionalmente da casa 1,3 milioni di lavoratori, il 5,7% del totale, rispetto al 23% in Francia, l’8,4% in Spagna e il 12,3% in Germania. Si prevede che in futuro uno smart working strutturale coinvolgerebbe 6,2 milioni di lavoratori, cioè oltre il 27% del totale, di cui 4,1 milioni lavorerebbero totalmente da remoto, mentre 2,1 milioni in modalità ibrida, con due o tre giorni di presenza in ufficio. Il calcolo è stato fatto partendo dall’ipotesi di un’adesione volontaria allo smart working, e utilizzando i nuovi dati SWG in base ai quali il 50% sarebbe interessato a lavorare totalmente da remoto, un 26% favorevole a una parziale presenza in azienda/ufficio, il 15% invece vorrebbe svolgere completamente l’attività nella sede aziendale; e un 9% che non si pronuncia.
I vincitori in questo caso sono quelli che hanno un lavoro “portabile”. Si stima che il numero di professionalità “potenzialmente lavorabili da remoto” è di 8,2 milioni, il 36,1% del totale degli occupati, in linea con previsioni precedenti sia italiane che a livello delle economie occidentali avanzate. Le incidenze di opportunità si concentrano nelle professioni intellettuali, tecniche e impiegatizie, con penetrazione maggiore nei servizi (39%) e PA (41%), minori nel commercio (26%) e pubblici esercizi (7%). Interessante il dato generazionale. La propensione a lavorare in smart working riguarderebbe soprattutto i giovani. Il 57% dei millennials direbbe infatti sì al lavoro da remoto, percentuale superiore del 25% rispetto alla media dei lavoratori. Ma attenzione a non trarre le conclusioni sbagliate. Secondo uno studio recente di LinkedIn, fatto nei principali paesi europei, i giovani vogliono la flessibilità, non il lavoro da remoto intensivo, perché preferiscono una buona dose di presenza, scelta liberamente, per separare meglio lavoro e vita, migliorare la produttività e le relazioni, oltre che avere accesso alla formazione informale e al mentoring reciproco tra colleghi.
CAMBIANO LE SCELTE DI ACQUISTO
Con la spinta della pandemia e il contributo significativo dello smart working, rispetto al 2019, nel 2022 vincono gli acquisti online +60%, sono triplicate le consegne a domicilio di cibo, perdono il turismo d’affari e gli eventi di lavoro -56%, con 1200 attività ricettive chiuse solo a Roma. Vince chi vende informatica +18% e prodotti per l’abitazione +7%, perdono i servizi di cura della persona e chi vende abbigliamento -8%.
RISPARMI E PERDITE ASIMMETRICHE
Vincono le famiglie di chi lavora smart. Se diventasse strutturale, lo smart working porterebbe le famiglie a spendere complessivamente 9,8 miliardi di euro in meno all’anno rispetto ai livelli pre- pandemia, tra riduzioni (-15,5 miliardi) e aumenti di consumi (+5,7 miliardi). Ad aumentare sarebbe soprattutto la spesa per acquisto di beni alimentari (+4,3 miliardi di euro), seguita da quella per le utenze domestiche e della casa (+1,1 miliardi). A diminuire, invece, soprattutto la spesa per ricettività e ristorazione (-7,9 miliardi di euro), seguita da quella in carburanti e trasporto (-6,1 miliardi). Ma calerebbero anche i consumi in abbigliamento (-1,2 miliardi) e per la cura della persona (-300 milioni di euro). Se facciamo un calcolo medio con uno smart worker per famiglia, si tratta di un risparmio di 1600 euro a famiglia all’anno.
Vincono le imprese che adottano lo smart working, ma la distribuzione di perdite e guadagni è asimmetrica. La riduzione di personale in presenza può portare un sensibile risparmio per le imprese, dai costi sostenuti per l’acquisto e gli affitti dei locali a quello del consumo di energia elettrica e gas, oltre che alle spese di trasporto e spostamento e tutto l’insieme dei costi indiretti. Secondo le stime di Confesercenti, uno scenario di lavoro da remoto strutturale potrebbe generare un risparmio per il sistema imprenditoriale di circa 12,5 miliardi di euro l’anno. Allo stesso tempo sarebbe di 25 miliardi di euro la perdita di fatturato dei settori trasporti, ricettività, turismo e abbigliamento, solo parzialmente controbilanciato da un incremento di 4,3 miliardi di euro nel commercio alimentare, con un effetto netto complessivo di meno -8,2 miliardi di euro. Nota bene: la differenza tra spesa famiglie (-9,8) e fatturato lordo in meno per le imprese (-25,0) è dovuta al fatto che una quota delle spese in meno è a carico delle imprese stesse (ovviamente di altri settori: organizzazione convegni, viaggi di lavoro e trasferte, buoni carburante, ecc.). A livello occupazionale si prevede che, senza correttivi, ci sarà la chiusura di quasi 21mila attività e la perdita di oltre 93mila posti di lavoro, in particolare nei pubblici esercizi (-11.840 imprese e – 47.360 occupati) e nella ricettività (-9.150 imprese, -45.750 occupati).
VINCONO L’AMBIENTE E I CENTRI MINORI
Considerando chi resterebbe a casa tutta la settimana e chi solo per 2-3 giorni, mediamente, circa 4,9 milioni di lavoratori al giorno non si sposterebbero più da casa, con alleggerimento dal trasporto pubblico di 1 milione di persone e 3,9 milioni di meno mezzi privati sulle strade, con una evidente ricaduta positiva sui livelli di inquinamento atmosferico. Inoltre, continuerebbe lo spostamento dai centri urbani principali verso quelli minori e periferici alle grandi città, con circa 400mila nuclei famigliari che hanno già cambiato residenza, e fatto incrementare del 30% le compravendite nei comuni minori.
LE PROPOSTE
Questi scenari rappresentano una sfida per molti settori, soprattutto del commercio, dell’ospitalità e della ristorazione. Confesercenti propone tre interventi. La creazione di un “apposito Fondo rotativo per la riconversione degli esercizi commerciali, che finanzi progetti di investimento almeno a 5 anni a un tasso agevolato, da collegare a investimenti in nuove tecnologie e nel segno della sostenibilità ambientale. Una nuova impresa commerciale green e digitale per la città che si trasforma”. Inoltre, la creazione di un’agenzia per il sostegno dell’impresa di vicinato e delle imprese diffuse. Infine, bandi comunali per la rigenerazione urbana su piccola scala, che abbiano a riferimento aree circoscritte e da affidare a raggruppamenti di imprese commerciali. Davanti a queste sfide trasformative, possiamo concludere che “non è tempo di mettere i calzini ai millepiedi”, un detto inglese equivalente al ligure “non siamo mica qua ad asciugare gli scogli”.
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