Teatri senza Frontiere torna in Africa: il diario dei primi spettacoli con L’Arca di Noe di Albizzate

L'impatto con Nairobi, capitale del Kenya, e Kibera, l'immensa baraccopoli che ha ospitato gli spettacoli con l'aiuto della KOINONIA COMMUNITY guidata dal frate comboniano Padre Renato Kizito Sesana

l'Arca di Noe a Nairobi

Noemi Bassani e Stefano Tosi della compagnia teatrale L’Arca di Noe di Albizzate sono tra i primi artisti ad esibirsi a Nairobi per la nuova edizione di Teatri senza frontiere, progetto di progetto di Teatro e Solidarietà nato per regalare momenti di socialità e di felicità a chi non ne ha e che mette in relazione diversi operatori del teatro ragazzi italiano con organizzazioni e missioni che operano in scenari sociali particolarmente difficili.

Galleria fotografica

Teatri senza frontiere: L’Arca di Noe nelle baraccopoli di Nairobi 4 di 11

Destinazione di questa XIII edizione è la capitale del Kenya: Nairobi, e le sue immense baraccopoli. A cominciare da Kibera, dove nei giorni scorsi si sono esibiti gli attori dell’Arca di Noe per regalare un’ora di spettacolo, di gioia e felicità ai bambini, ai ragazzi e a tutte le persone che si sono fermate a seguire lo show in un palcoscenico improvvisato.

l'Arca di Noe a Nairobi

L’arrivo nella capitale e l’evento, realizzato grazie alla collaborazione con KOINONIA COMMUNITY guidata dal frate comboniano Padre Renato Kizito Sesana sono raccontati di seguito dalle parole di Marco Renzi, responsabile del progetto Teatri senza frontiere, e dalle foto di Ruggero Ratti.

NAIROBI, IMPRESSIONI DI SETTEMBRE

Erano cinque anni che non tornavo in Africa. Avevo dimenticato le strade affollate, i clacson, la terra rossa, i ragazzi che ti seguono per chiedere soldi, la carne esposta, i mercati infiniti con i banchi sgangherati in legno, la merce a terra, le voci, gli odori, le stoffe colorate, le moto taxi e via dicendo. Come una madre premurosa l’Africa mi ha fatto ritrovare ogni cosa, già dal primo giorno: la sua struggente bellezza, le mille contraddizioni e nonostante sia stata derubata e malmenata, continua a restare sempre viva, allegra e presente. L’Africa è enorme, ci vorrebbero due vite per conoscerla, per apprezzarne le mille lingue e culture, quello che sto scrivendo si riferisce a quel poco che ho avuto la fortuna di vedere. Il mondo è in debito con questi popoli e lo sa bene, tuttavia preferisce far finta di nulla, si stupisce persino della sua miseria, come se fosse estraneo a tutto questo, dimenticando secoli di vergognose deportazioni, poi altri di colonialismo, fino agli attuali sfruttamenti delle enormi risorse che persistono nonostante le proclamazioni di indipendenza del secolo scorso e i moderni Stati.

Siamo arrivati a Nairobi, gigantesca metropoli di oltre cinque milioni di abitanti, in continua espansione, città che ti accoglie con i suoi avveniristici grattacieli circondati da infinite baraccopoli, dove vivono, in condizioni che nessuna fotografia può ridarci, milioni di esseri umani. Ricchezza e povertà passeggiano insieme in queste strade polverose e rosse, a braccetto, come amiche di vecchia data, scandendo i passi di un noto e millenario balletto, sotto gli occhi di chiunque, senza vergogna alcuna, come mai in nessun’altra parte del pianeta. Capitale sterminata, punteggiata da mercati senza fine, piena di vie vocianti da mattina a sera, per diventare poi, quando scende la notte, minacciosa e sconsigliata.

Ci sono decine di migliaia di bambini di strada a Nairobi, abbandonati a loro stessi, quanti con esattezza nessuno lo sa, è un esercito al quale non mancano mai soldati, ci hanno raccontato come durante la fase acuta della pandemia questa armata sia cresciuta oltre ogni misura, tante persone hanno perso quel poco di lavoro che avevano non potendo più garantire neppure il magro pasto al giorno. Allora i figli, come foglie in autunno, si sono staccati, andando a vivere in strada, cercando di campare con quello che potevano trovare.
Ce ne sono di tutte le età, ogni tanto la polizia fa retate, ne prende qualcuno e lo porta dagli uomini di buona volontà. Da uno di questi siamo ospiti, è la seconda volta che TEATRI SENZA FRONTIERE lo incontra: sandali, chioma bianca e una forza che raramente si incontra.

Padre Renato Kizito Sesana è un frate comboniano da oltre trent’anni in Africa, come i suoi fratelli costruisce, accoglie, educa, salva persone, dando loro un futuro che diversamente non avrebbero avuto.
A Nairobi ha comperato terreni, edificato scuole, dato vita ad attività economiche, i bambini di strada li portano da lui, oggi me ne ha fatto conoscere uno che è li da quando aveva due anni, adesso va a scuola, gioca con gli altri, sorride, nonostante tutto quello che la vita gli ha riservato.
Come lui ce ne sono centinaia accolti nelle strutture di KOINONIA COMMUNITY, la missione di Kizito, crescono, studiano, molti rimangono e si adoperano per accogliere chi avrà bisogno, chiudendo un cerchio di straordinaria bellezza. Ci sono scuole, laboratori artigianali, ristoranti, orti, case per dormire, vita che straripa in ogni dove, in un difficilissimo processo di autosufficienza, perché gli aiuti dall’Europa non arrivano più come una volta, la crisi morde anche i paesi ricchi e le conseguenze si fanno sentire.
Nonostante questo arretramento i bisogni restano e bisogna farci fronte, ogni santo giorno.

La cosa più stupefacente dei missionari comboniani non è solo ciò che riescono a fare, ma la capacità che hanno di guardare sempre avanti. Una volta creato un centro si adoperano per avviarlo e renderlo autonomo, cosa tutt’altro che semplice, poi, quando vedono che può camminare con le proprie gambe, partono e vanno a crearne atri altrove. Così sta facendo questo Padre che, oltre a Nairobi, ha aperto centri di accoglienza in Tanzania e Sud Sudan, e, nonostante i suoi splendidi ottant’anni, continua ancora, con una tenacia e una luce che davvero poche persone possiedono.
Certo il problema è immenso, riguarda milioni e milioni di esseri mani e di fronte a questo non si può che ammutolire per la sproporzione delle forze in campo. Kizito però, come tanti altri, si è rimboccato le maniche e sta dando la sua vita per aiutare, esponendo, come un bravo pittore, le sue palesi opere di bene.

È proprio di fronte a queste evidenze che bisognerebbe portare alcuni governanti del pianeta, farli inginocchiare e pensare. Come si può, in un mondo così contraddittorio, decidere di invadere un Paese mandando al massacro migliaia di giovani, come può essere possibile e quale ragione può giustificarlo. Basta con miliardi di risorse buttate nelle armi quando la gran parte dell’umanità soffre ancora la fame e non gode dei più elementari diritti, fin quando tutti non avranno accesso al cibo, all’acqua, all’istruzione e al lavoro e ad una vita dignitosa, la guerra dovrebbe essere vietata per legge universale e per buon senso. Ammazzarsi è intollerabile, sempre e ovunque, ma ancor di più quando si vedono situazioni come quella che abbiamo davanti agli occhi in questi giorni: migliaia di case distrutte in Ucraina a fronte di milioni di persone che non ne hanno in Kenya. A questo punto i paragoni potrebbero continuare con un lungo e imbarazzante elenco lesivo dell’intelligenza del genere umano.
Mi piacerebbe portare Putin (e a dire il vero anche tanti altri) negli slam di Nairobi, poi lasciarlo libero e solo, senza guardie del corpo, che giri, che veda, che abbia modo di confrontarsi con il mondo nella sua stupefacente realtà.

l'Arca di Noe a Nairobi

 

KIBERA -NAIROBI – KENYA – TEATRI SENZA FRONTIERE

Kibera è il nome di uno degli slum che circondano oramai il centro della capitale del Kenya, ce ne sono diversi ma questo è considerato tra i più grandi di tutta l’Africa, quante persone ci vivono è difficile da stabilire. I vari censimenti, che pure ci sono stati, riportano dati ufficiali che però difficilmente corrispondono alla realtà delle cose. Molte persone, come ai tempi di Gesù, hanno preferito farsi censire nel loro villaggio di origine, affrontando viaggi certo non facili, per chi non ha nulla, pur di non vedere scritto su un documento che abitano nello slum di Kibera.
C’è chi pala di un milione di persone come cifra attendibile e comunque sempre in continua evoluzione.
Lo slum è un accrocco di baracche prevalentemente in legno e lamiera, coperte con i “tipici” tetti in metallo ondulato color ruggine, un tempo sorgevano ai margini della città, fino a diventarne oggi parte integrante.

Kibera, in linea d’aria, dista qualche chilometro dagli avveniristici grattacieli di cui il centro città fa sfoggio, un tempo era una vergogna lontana ma oggi è lì, abbracciata a quegli edifici fastosi, simbolo del progresso e della ricchezza. Ce ne sono di tutte le forme: pendenti, attorcigliati, slanciati e austeri, insieme costituiscono l’inconfondibile skyline di Nairobi, sotto al quale si espande la brulicante vita del business: scandita da banche a ripetizione, tutte corredate da uomini armati all’ingresso, bar, ristoranti, auto di grossa cilindrata, uomini e donne ben vestiti e tutto quel movimento che oramai contraddistingue ovunque la moderna vita occidentale.

Ad uno sguardo più attento, dopo qualche tempo di permanenza, non sfuggono però segni di squilibrio, primo fra tutti quello dell’aria che puzza di scarichi, perché in mezzo ai potenti mercedes sfrecciano centinaia di fumanti matatu, i fantasmagorici autobus che collegano le periferie al centro e che meritano uno scatto speciale tutto per loro che gli verrà dedicato in altri report. Come un bel vestito dal quale spuntano scarpe sporche, si scoprono poi marciapiedi “sgarrupati”, giovani dei quartieri poveri che ti avvicinano, mendicanti che chiedono soldi e via dicendo.
Sono i lembi di una miseria che nonostante si cerchi di nascondere sotto il tappeto, comunque affiora, anche perché è vicina più di quanto si possa pensare. Basta infatti spostarsi di poco e il pianeta diventa un altro: con abitanti, orbite e leggi diverse.

Ho visto la faccia della miseria stampasi in tante parti del mondo, ma quella di Kibera non credo che riuscirò a dimenticarla. Il primo impatto è devastante e si apre su un canyon foderato da quintali di rifiuti, un paesaggio lunare, dominato dalla terra rossa che ben si sposa con il color ruggine dei tetti delle baracche, che si perdono a vista d’occhio da ogni parte si volga lo sguardo. Sul fondo del canyon passa la ferrovia, o meglio passava, oggi i treni sono stati deviati e solo pochissimi ancora vi transitano, forse perché era troppo imbarazzante o forse per via dei “fly” di cui ci hanno raccontato. In passato in maniera totale, oggi molto meno, la gente faceva i propri bisogni in sacchetti di plastica che poi lanciava nel canyon, dicono che la quantità fosse tale che una volta un treno deragliò per questo motivo. Oggi ci sono diversi bagni pubblici, le baracche non hanno servizi igienici e quelli che ci sono li utilizzano comunitariamente, che è pur sempre meglio del lanciare.
Non c’è acqua corrente, chi la vuole la compera in taniche gialle che si vendono un po’ ovunque, le carica in spalla e se le porta a casa.

Gli abitanti delle baracche non ne sono proprietari ma pagano un affitto a chi detiene i diritti su quel terreno e questo sembra essere uno dei motivi che rallentano una possibile soluzione del problema, sta di fatto che milioni di persone vivono in uno stato desolante e impensabile se non lo si vede con i propri occhi. Non è possibile andare dentro gli slum, né quello di Kibera, né altrove, vi accedono solo quelli per lavoro, ong in testa, ma per la polizia entrare è molto difficile se non impossibile. Diverse bande controllano la situazione e a detta di chi conosce queste realtà non c’è mai da stare sicuri, il nostro stesso andare a fare uno spettacolo è stato preceduto da mille raccomandazioni e da operatori che hanno preparato il terreno affinché il tutto potesse svolgersi nella massima sicurezza.

Ci siamo sistemati in un pezzo di terra polverosa e scoscesa, hanno preso i banchi di legno di una scuola vicina, li hanno portati e sistemati a cerchio, poi sono arrivati i ragazzi e con loro altra gente si è fermata e per un’ora il teatro ci ha resi esseri umani liberi.
Abbiamo riso, battuto insieme le mani, assistito più che ad uno spettacolo, ad un evento che stentiamo a credere sia realmente avvenuto, per fortuna le immagini fotografiche sono lì a tranquillizzarci che non abbiamo sognato e a dirci che sopra un pezzo di terra rossa, tra quintali di spazzatura intorno, delle persone sono state insieme, come su un grande tappeto volante, trasportate in un altrove che li ha resi, per quel tempo che è durato, una comunità felice: bianchi, neri, cattolici, musulmani, preti, laici, bambini, operatori, ladri, malati, tutti insieme, per essere più semplicemente genere umano.

l'Arca di Noe a Nairobi

di
Pubblicato il 26 Settembre 2022
Leggi i commenti

Galleria fotografica

Teatri senza frontiere: L’Arca di Noe nelle baraccopoli di Nairobi 4 di 11

Commenti

L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di VareseNews.it, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.

Segnala Errore

Vuoi leggere VareseNews senza pubblicità?
Diventa un nostro sostenitore!



Sostienici!


Oppure disabilita l'Adblock per continuare a leggere le nostre notizie.