Bellotto e Jemoli, missione sul pianeta NBA con la Pallacanestro Varese
Gli assistenti di Scola e Arcieri hanno trascorso una settimana negli USA visitando quattro franchigie, assistendo alle partite e facendo tappa nelle sedi di NBA e NBPA. Il loro racconto per VareseNews
Una settimana a stretto contatto con la NBA: dai campi di allenamento alle sedi delle franchigie fino alle partite di campionato in alcune delle arene più belle e famose del mondo. Una full immersion che hanno vissuto, nei giorni scorsi due figure giovani e importanti per la Pallacanestro Vareese ovvero Federico Bellotto e Matteo Jemoli gli assistenti, rispettivamente, di Luis Scola e Michael Arcieri.
Nata come una vacanza con l’idea di vedere qualche partita, il viaggio di Bellotto e Jemoli si è trasformato in una visita accurata alle strutture di diverse franchigie grazie alla rete di contatti che gli stessi Scola e Arcieri hanno mantenuto negli States. I due giovani varesini hanno quindi potuto entrare a stretto contatto con i New York Knicks, i Washington Wizards, i Brooklyn Nets e i Philadelphia 76ers e sono anche stati ospiti dei quartier generali della NBA stessa e della NBPA, il sindacato dei giocatori. Organismi che hanno entrambi sede nella Grande Mela.
Li abbiamo incontrati alla Enerxenia Arena un paio di giorni dopo il loro rientro a Varese, al termine di una esperienza emozionante dal punto di vista personale ma anche – quel che più interessa a chi segue la squadra – altamente formativa sotto il profilo professionale. «Siamo partiti senza un compito preciso ma con l’indicazione di “andare, osservare, scoprire e riportare”».
Durante le varie visite vi siete, in qualche modo, divisi i compiti?
Jemoli: «Non del tutto, però io mi sono occupato più della parte relativa al basket e al management legato alla squadra. Quindi dei metodi di allenamento, del lavoro dello staff tecnico, dei dirigenti vicini ai giocatori. Inoltre mi interessavano le strutture a disposizione delle franchigie pensando al futuro rebuilding che intendiamo fare al Campus».
Bellotto: «Per quanto mi riguarda invece ho seguito di più il lato esecutivo: il management della società, l’amministrazione, la componente aziendale che ha ogni franchigia e tutta la parte legata al marketing, ai tifosi, al coinvolgimento delle persone che seguono le partite».
Nella “casa” dei Washington WizardsQual è la cosa che vi ha colpito di più tra le tante che avete osservato nei giorni scorsi?
J: «La bellezza delle strutture di allenamento. Sembra di essere in un altro mondo per tutto: dall’organizzazione, alle tecnologie a disposizione fino ai campi di allenamento perché ogni cosa ti colpisce per quanto è perfetta. Parlando invece della singola partita di campionato, è notevole il coinvolgimento della gente: in ogni momento morto si cerca il contatto con il pubblico tra telecamere dedicate, quiz proposti sul “cubo” centrale, gadget distribuiti. Cose che facciamo anche qui in Europa e a Varese ma spinte al massimo livello».
B: «L’organizzazione generale: vedere cioè quante persone sono impiegate, come sono organizzate, come ogni dettaglio venga curato nei minimi termini. Per ogni società lavora tantissima gente: i Wizards hanno ben sette social media manager attivi durante una partita. Hanno ovviamente risorse enormi, sia finanziarie sia umane, per questo genere di lavoro ed è chiaro che questo faccia la differenza con le nostre società. L’altra cosa che balza all’occhio è che tutto è strutturato in chiave business: non fanno niente per niente, ogni cosa è sponsorizzata o comunque porta introiti. E dentro al palazzetto tutto costa carissimo».
Facciamo qualche esempio pratico di quello che avete osservato.
J: «Sui metodi di allenamento, grazie a Luis e Mike, stiamo già lavorando nella direzione seguita negli USA. Prima di tutto per la grande attenzione al lavoro individuale: nel giorno della partita per esempio si tende ad avere pochissimi giocatori per volta in campo così che ognuno abbia a disposizione gli allenatori. Ci si allena con la musica, una cosa che abbiamo introdotto anche noi. E poi è rilevante come tutte le strutture siano collegate e comode nonostante le grandi dimensioni».
B: «Cito anche io questo aspetto: la struttura, la training facility, ha tutto: si può entrare alle 7 del mattino e uscire alle 20 senza lasciare l’area e questo vale sia per la parte sportiva sia per quella amministrativa. Anche l’accoglienza e l’ospitalità per i visitatori è molto curata: un aspetto che riguarda sia i tifosi al palazzetto sia chi, come noi, viene ospitato nelle sedi del club. Ti senti parte dell’organizzazione. Un esempio: a New York abbiamo avuto un pass per il warm up, il primo riscaldamento pre-partita aperto solo a un numero ridotto di spettatori che pagano il biglietto, arrivano sino a bordo campo, possono salutare i giocatori. E trovano qualche vecchia gloria come Walt Frazier o Allan Houston per le foto e gli autografi».
Il campo di allenamento della NBPA, il sindacato dei giocatori NBAParliamo invece delle “basi” di NBA e NBPA che avete visitato a New York.
J: «Alla NBPA (National Basketball Players Association ndr) abbiamo incontrato Matteo Zuretti, dirigente italiano (è nato a Milano, cresciuto a Roma e ha parenti stretti nel Varesotto ndr) che ci ha fatto da guida parlandoci nei dettagli di come funziona la loro struttura. La NBPA lavora prima di tutto per creare fiducia nei giocatori: in sostanza, se un club può mostrare ogni giorno vicinanza all’atleta, il sindacato ha molte meno occasioni e meno tempo soprattutto con le superstar. L’attenzione però è rivolta fortemente verso il singolo atleta: nella sede c’è la possibilità di allenarsi per i senza squadra perché ci sono un campo meraviglioso, spogliatoi, ambulatori oltre che sale riunioni che i giocatori possono prenotare per le loro necessità. Un vero e proprio appoggio lavorativo a New York».
B: «Nella sede NBA abbiamo incontrato il direttore delle Basketball Operations, quindi la parte più legata al lato sportivo. Ci ha spiegato come il loro obiettivo sia quello di aiutare le franchigie a svilupparsi sempre di più, fornendo loro direttive e personale. In pratica la lega standardizza tutta una serie di cose per tutte le società affiliate: la squadra fa parte di qualcosa di più grande. Poi interessante l’attenzione destinata alle regole tecniche per modernizzare il gioco, alle regole comportamentali, all’uso della G-League per sperimentare le nuove soluzioni. Infine una curiosità: un intero dipartimento si occupa di compilare il calendario, per quanto è complicata questa attività».
Al di là degli aspetti professionali, cosa vi è piaciuto di più?
J: «Fuori dal basket di sicuro la partita di hockey su ghiaccio, che conosco poco, cui abbiamo assistito. Mi ha coinvolto tanto, è stata una partita bellissima ma anche sentita perché era il derby di New York, vinto dagli Islanders 4-3 sui Rangers. E il Madison Square Garden illuminato e pieno fa un effetto speciale qualunque sia lo sport praticato in quel momento».
B: «Siamo stati anche a una partita di football – NY Giants contro Houston Texans – ed è stato incredibile quello che gli americani chiamano tailgate, un termine che identifica il pianale posteriore dei pickup o comunque il portellone del baule. Arrivano tre ore prima della partita nel parcheggio, abbassano le sponde dei pianali, tirano fuori i barbecue, i frigoriferi, le spine per la birra e fanno una festa inaudita. A livello professionale infine, è bellissimo il “game day”, cioè la partita a tutto tondo: un’esperienza che inizia molto prima della contesa iniziale. Tre ore incredibili nelle quali non ci si può annoiare e, tra l’altro, per un tifoso è impossibile non spendere soldi per la squadra».
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