Mario Calabresi a Festival Glocal: “È importante avere sogni e coltivarli”
In una sala Campiotti piena e ricca di entusiasmo lo scrittore e giornalista, CEO & Editor-in-Chief Chora Media, ha presentato il suo ultimo libro, “Una volta sola”, edito da Mondadori, intervistato dal direttore di VareseNews, Marco Giovannelli
«Il Covid ci ha insegnato a non dare nulla per scontato. Io ho scelto di raccontare storie, con mezzi nuovi, sperimentando. Ho la fortuna di essere curioso e di esserlo sempre stato, questa è la chiave per fare del buon giornalismo».
In una sala Campiotti piena e ricca di entusiasmo (sono decine i lettori che si sono fatti firmare il libro al termine dell’incontro), Mario Calabresi, scrittore e giornalista, CEO & Editor-in-Chief Chora Media, ha presentato il suo ultimo libro, “Una volta sola”, edito da Mondadori, intervistato dal direttore di VareseNews, Marco Giovannelli nel quadro dell’undicesima edizione di Festival Glocal.
«Il libro è dedicato a Emma, una delle mie figlie, gemelle: ho promesso all’altra, Irene, che l’anno prossimo ne scriverò un altro per lei. Quindi tornerò l’anno prossimo a Glocal, ve lo dico sin d’ora. Credo che le mie figlie siano alleate di Mondadori – ha detto Calabresi aprendo il suo intervento con questo aneddoto divertente e il consueto piglio ironico e coinvolgente -. C’è un solo problema, devo scriverlo, ma le storie le ho già».
“Una volta sola” è un libro ricco di storie, che fa piangere, ma anche sorridere e pensare: «Con Mario c’è un feeling immenso, inatteso. Abbiamo un legame profondo: il gelato che ha dato il là alla stesura del libro, una compagna che ci corregge i verbi – ha spiegato nell’introduzione Giovannelli -. Nel libro c’è una carica umana di vissuto enorme, pieno».
LA DIRETTA DELL’INCONTRO
Calabresi ha raccontato alcune delle storie contenute nel suo ultimo lavoro: quella degli immigrati argentini a Rimini e Torino, scelte da tanti giovani di Buono Aires come nuova casa dove trovare opportunità e un futuro migliore; quella di Alì, raccolta in venti diverse interviste: «L’ho conosciuto perché ha una bottega da sarto a Torino, ci sono andato per rammendare un golf, mi ha incuriosito e da lì è nata questa storia, con calma, con pazienza, con tatto. Ho raccolto la sua testimonianza, pensando a tutte le storie di chi arriva qui: mi ha raccontato di Kabul, della fuga in Iran, del terribile viaggio fino ad arrivare in Italia. Ho anche dovuto riaprire il libro, già consegnato e chiuso per la stampa, per raccontare l’ultimo pezzo della sua vita: il 19 dicembre andremo al suo matrimonio, sposa una donna afgana scappata da Kabul su un aereo dei militari italiani. Mi ha detto che sono la persona a cui ha parlato di più della sua vita»; quella di Laura Tangorra, che ha la Sla da venti anni, è immobilizzata, comunica con gli occhi, una storia di resistenza, di scelta di continuare a vivere: «Mi ha colpito la sua ironia, spiritosa, ironica: ho lasciato a lei l’ultimo capitolo»; quella della scelta tra due fratelli, uno terrorista, l’altro medico in Africa; quella di Piero, testimone dell’omicidio del giudice Livatino, che ha perso la propria identità per proteggere la sua vita, pagando un prezzo altissimo per il suo coraggio.
«Ho lasciato libera la curiosità, una cosa che ho fin da quando ero bambino. Nei giornali essere curiosi è considerato un po’ naïf, fare domande significa che non sai. Essere curiosi e non avere vergogna di esserlo è una delle basi del far bene giornalismo. Fare domande, chiedere per conoscere è fondamentale. Io sognerei di avere un giorno in più alla settimana per scavare e cercare altro sulle storie che raccolgo – ha detto Calabresi strappando applausi sinceri -. Le storie nascono dagli incontri. Non mi interessa occuparmi della negazione, ma della costruzione di senso sul resto. Occupare tempo su chi nega per negare non ha senso. Il Covid ci ha detto che il tempo non è infinito, che può arrivare qualcosa all’improvviso che può portarci via persone, tempo, libertà. La precarietà riscoperta, che i nostri nonni conoscevano, ci fa rendere conto che non tutto è programmabile, bisogna fare, non occuparsi di chi disfa».
Nel corso dell’incontro Calabresi ha parlato anche di podcast e della sua scelta di dare vita a Chora, lasciando il mondo del giornalismo “tradizionale” per fare un esperimento che sta dando i suoi frutti: «In passato quante volte abbiamo sentito dire che “internet è come il borsello”, passerà di moda. Lo stesso è successo coi podcast, un collega e amico come Gianni Riotta due anni fa non ci credeva e anche qui, da questi stessi microfoni, mi si chiedeva conto della scelta di lasciare il giornalismo per un esperimento. Allora dissi che la vita non sono i 100 metri, ma una maratona. A Chora oggi siamo in 52, non più in 5, tutti vogliono fare i podcast, ci sono giornalisti che scommettono su questa nuova esperienza. L’importante è avere sogni e coltivarli. Io sono contento di aver fatto una scelta, a dispetto di quello che in molti dicevano. Non bisogna farsi fregare dalle etichette, sono orgoglioso di quello che ho fatto nei giornali e di quello che faccio oggi in forme nuove: il giornalismo la fanno la curiosità e la sostanza delle cose. La pandemia ha accelerato tutto, le scelte, la scoperta. Noi siamo un insieme di cose, una somma di esperienze, amicizie, insegnamenti: ogni scelta è dettata da quello che siamo, dalla somma di cose che abbiamo vissuto».
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