Le nostre montagne senza ghiacciai e nevi perenni si avviano alla desertificazione

Eugenio Maria Castiglioni è un profondo conoscitore di montagne e ghiacciai. In questa intervista spiega il fenomeno in atto e anche le prospettive

Elicottero sul ghiacciaio

Eugenio Maria Castiglioni è un architetto, ma da sempre è uno studioso appassionato e ben documentato in tema di montagna e soprattutto di ghiacciai. Una passione nata grazie all’incontro con don Augusto Gianola, parroco di Locate Varesino, che Castiglioni incontrò quando era ancora bambino.

Castiglioni, perché don Augusto Gianola è stato determinante?
«Perché era un grande alpinista. Arrivava da Lecco ed era compagno di banco di Carlo Mauri, alpinista e famoso esploratore. A Locate fondò il gruppo alpinistico “Cent Pé” portando i giovani dell’oratorio a scalare le montagne anche di grande difficoltà. Decise un giorno di trasferirsi lontano in una missione in mezzo all’Amazzonia. Prima che morisse, a 60 anni, Enzo Biagi lo intervistò per la Rai nella sua Amazzonia con un filmato mandato in onda prima del film Mission. L’interesse per il progressivo degrado dei ghiacciai e dell’abbandono della montagna è nato soprattutto in occasione della stesura della mia laurea in architettura di circa 50 anni fa quando, diversamente dalle tendenze indirizzate soprattutto verso l’urbanistica, l’architettura sociale, i piani regolatori e la viabilità, ho scelto di occuparmi “dell’architettura degli ultimi là dove le pietre restano a testimoniare un mondo che non esiste più.” Due anni dopo la mia tesi, nel 1977, Nuto Revelli pubblicava “Il mondo dei vinti” che appunto parlava dei montanari delle sue zone del cuneese che abbandonavano le loro case in montagna, le loro tradizioni, le loro radici e la loro cultura per scendere a lavorare nelle fabbriche vicine a Torino».

Da quando si è iniziato a parlare di scioglimento dei ghiacciai, e non più del loro arretramento?
«Fino agli anni ’50 del secolo scorso veniva soprattutto monitorato il fronte dei ghiacciai dove era possibile visivamente verificarne l’arretramento e a monte non erano evidenti le alterazioni dovute all’aumento della temperatura terrestre. Verso la fine del secolo scorso a partire dagli anni ’90 hanno cominciato a verificarsi dei collassi a monte del fronte dei ghiacciai, segno che sotto il ghiaccio scorreva acqua di scioglimento e il ghiaccio non poggiava più direttamente sulla roccia. Da qui le doline di forma circolare con diametri sempre maggiori che abbassano il livello del ghiacciaio riducendo lo spessore del ghiaccio. Un esempio di questa situazione è il ghiacciaio del Mandrone in Adamello o la dolina sotto il Dente del Gigante e del lago che si è formato a 3400 metri, all’inizio del ghiacciaio della Mer de glace sul versante francese del monte Bianco».

Qual è la differenza tra i ghiacciai vallivi, di gronda e degli altopiani ?
«La differenza è determinata dalla morfologia del terreno su cui appoggiano e si sono formati: su altopiani come il ghiacciaio del Pian del re e del Mandrone in Adamello con una superficie allargata e distribuita su un pendio non accentuato. Ghiacciai che definisco di gronda, cioè sospesi sopra un versante roccioso dal pendio accentuato come il ghiacciaio del Disgrazia o quello delle Gran Jorasses sul versante italiano del Monte Bianco, quelli destinati a crolli verso valle. Ghiacciai vallivi quelli che si sono formati incuneandosi sul fondo della valle, hanno una maggior lunghezza e una minor larghezza rispetto quelli di altopiano. Sono originati dall’incontro a monte di altri ghiacciai che scendono dai fianchi delle montagne limitrofe e confluiscono in un unico ghiacciaio. Tipico ghiacciaio vallivo il più grande d’Italia è quello dei Forni in fondo alla Valfurva in Valtellina. I ghiacciai vallivi vengono definiti anche Himalayani perché simili a quelli presenti in quelle aree».

Il 2050 a suo avviso sancirà la scomparsa dei nostri ghiacciai ?
«Sono i numeri a dirlo come dai grafici, non è certo una mia profezia. Se l’aumento della temperatura causato dall’aumento del CO2 e dei gas serra continuerà con l’accelerazione di questi ultimi 20 anni i ghiacciai alpini almeno sul versante sud delle Alpi scompariranno con certezza».

Quando è iniziato l’abbandono della montagna e cosa comporterà per l’insieme di quell’area geografica ?
«L’abbandono della montagna inizia a partire dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso quando l’uomo di montagna sceglie di lasciare dove vive e trasferirsi a valle soprattutto là dove si è sviluppata l’industria come in Piemonte e in Lombardia. L’abbandono è iniziato più tardi o in alcuni casi addirittura non c’è stato in alcune zone come in Alto Adige e Trentino o nelle valli laterali della Val d’Aosta. Nel 1957 per la prima volta i lavoratori dell’industria superano quelli che lavorano nel settore agricolo. Interessanti sono i dati demografici che dimostrano l’abbandono della montagna. Questo fenomeno lo riscontriamo in tutta Italia dove non è sempre la presenza di un’industria diffusa ad attirare chi vive sulle montagne, ma ad esempio nel meridione d’Italia c’è una migrazione dai paesi all’interno verso la costa che ha una maggior viabilità, più servizi e il turismo che offre possibilità di lavoro. La presenza dell’uomo in montagna è indispensabile, il buon governo dei pascoli di alta montagna, dei boschi e la coltivazione delle aree agricole non può fare a meno del lavoro dell’uomo. Da sempre la montagna vive un equilibrio idrogeologico molto instabile e il controllo e la stabilità di questo equilibrio dipende proprio da quello che l’uomo con la sua presenza e il suo presidio in questi territori può garantire o almeno ridurre le conseguenza spesso disastrose del dissesto idrogeologico. L’apparato radicale di un pascolo abbandonato nel giro di pochi anni si frantuma favorendo il ruscellamento dei corsi d’acqua anche quelli più piccoli che lo invadono. Durante il periodo invernale la formazione di ghiaccio favorisce questo fenomeno che viene tecnicamente chiamato periglaciale, con l’avvento successivo della bella stagione il pascolo, soprattutto se disposto su un pendio accentuato, tende a scivolare verso valle. Un bosco abbandonato significa scomparsa del sottobosco che da sempre svolge la funzione di assorbire come una spugna l’acqua che cade soprattutto in occasione di forti precipitazioni. In un bosco abbandonato il sottobosco viene soffocato e coperto da uno strati di aghi e foglie degli alberi dando origine a pendii a volte scoscesi (pinera, paghera…) dove l’acqua cadendo scivola velocemente verso le vallette che a loro volta con un alveo non più pulito dei tronchi, dei rami e dei detriti lì finiti danno origine a degli invasi momentanei che poi crollano producendo delle vere e proprie bombe d’acqua».

Cosa si intende per desertificazione della montagna, che lei ha collegato al fenomeno della siccità che colpisce i nostri ghiacciai?
«Le nostre montagne senza i ghiacciai e le nevi perenni e i territori sottostanti sono destinati a diventare aree desertiche senza una vegetazione che oggi già si ferma a quota 2000 metri slm. In mancanza di acqua anche la vegetazione ancora adesso costituita da mugheti, erba, muschi e licheni farà fatica a svilupparsi. Scivolando verso valle i pascoli lasceranno spazio ai terreni nudi (pietre, detriti, materiale sabbioso) mentre lo strato argilloso con la pioggia sarà il primo a scivolare verso il basso. Il fenomeno della siccità è indirettamente collegato allo scioglimento dei ghiacciai che provocano una desalinizzazione delle acque marine, favorendo una maggior e più veloce vaporizzazione delle acque con la formazione di nubi e aree cicloniche anomale e diverse da quelle storicamente conosciute. Queste correnti cicloniche anomale provocano di fatto a livello climatico eventi di forte intensità e diversi tra loro: bombe d’acqua, uragani, tornadi e anche la siccità che questa estate abbiamo subito come non mai. Anche le correnti marine stanno subendo delle modifiche epocali con conseguenze a volte gravi e devastanti».

Quando i ghiacciai regrediscono, da cosa viene occupata la superficie che rimane scoperta?
«Quando un ghiacciaio scompare rimane quello che ci sta sotto cioè rocce frantumate nei millenni dal ghiaccio che le ricopriva, detriti morenici un deserto vero e proprio che, vista la quota non potrà mai essere occupato dalla vegetazione. Sono ben 124 i ghiacciai scomparsi sul nostro arco alpino».

Qual è lo stato dei ghiacciai del Monte Bianco, del Monte Rosa, del Cervino, dell’Adamello, del Grande Paradiso e dello Stelvio ?
«È necessario, per quanto riguarda lo stato dei ghiacciai, ricordare anche che l’unico ghiacciaio appenninico rimasto, quello del Calderone situato in Abruzzo nel massiccio del Gran Sasso d’Italia, sul versante settentrionale del Corno Grande, posto in una conca esposta direttamente a nord, chiusa e relativamente ombreggiata da due linee di cresta, ad una quota compresa tra i 2.650 e i 2.850 metri s.l.m. circa. Si tratta però più di nevi perenni e non propriamente di ghiacciaio anche se viene considerato ancora quello più a sud dell’Europa. I ghiacciai scomparsi nelle Alpi sono per lo più quelli secondari che un tempo confluivano in quelli maggiori come quelli sul ghiacciaio del Miage, o su quello di Les Blanches nel Monte Bianco o quelli sul ghiacciaio dei Forni che addirittura oggi si è spaccato in tre ghiacciai separati tra loro. Sullo stato dei ghiacciai del Monte Bianco è da dire che quelli posti sul versante italiano esposto a sud soffrono in maggior misura anche se il Ghiacciaio della Mer de Glace che scende verso Chamonix ha subito un arretramento, circa 10 km. dagli anni ’70, una diminuzione dello spessore, mt. 115 solo dal 1985 ad oggi e mt. 265 dagli anni ’50, e con una formazione ormai diffusa di doline e collassi glaciali anche in alta quota. Preoccupante la situazione dei ghiacciai del Monte Rosa, soprattutto quelli sul versante di Macugnaga, quello delle Locce e quello del Belvedere che stanno letteralmente scivolando verso valle provocando il crollo delle morene che li hanno sempre contenuti e il canalone Marinelli che è diventato un colatoio continuo di detriti, rocce, acqua e frammenti di ghiaccio. Si sta ritirando anche il ghiacciaio che dal Monte Rosa scende sul versante svizzero verso Zermatt sotto il Lyscamm e il Cervino che non è dotato di un suo vero e proprio ghiacciaio essendo una piramide rocciosa. Il ghiacciaio dell’Adamello per il suo scioglimento continuo è diventato un laboratorio internazionale dove gli studiosi di diverse nazioni, glaciologi e geologi, stanno monitorando in continuazione visto il suo sempre più evidente stato di degrado. Questo vale anche per i ghiacciai del Gran Paradiso e quello d’altopiano dello Stelvio che si sta frantumando e spaccando progressivamente mettendo in dubbio la possibilità di utilizzarlo ancora per lo sci estivo. Per la prima volta da quando esiste lo sci estivo allo Stelvio, cioè dagli anni ’30, il 24 luglio di quest’anno è stato chiuso per evidente mancanza di neve e di pericolosità».

Cosa possiamo fare istituzionalmente e socialmente come collettività per contrastare questo fenomeno?
«Certamente i nostri ghiacciai non ritorneranno più ad essere quelli che erano e che io conoscevo; il loro scioglimento e la loro progressiva scomparsa sono un campanello di allarme sulla mutazione climatica che non interessa solo i ghiacciai ma gli eventi catastrofici a livello globale. Di fronte a questa situazione e ai sempre più numerosi eventi climatici impazziti è innegabile stabilire che la causa primaria è l’innalzamento della temperatura causata dall’emissione di CO2 e dagli altri gas che provocano l’effetto serra da parte dell’uomo. Purtroppo sopravvivono ancora dei “negazionisti” che sono convinti che tutto quello che sta succedendo è di origine naturale e anche dei sedicenti ambientalisti che gioiscono nel vedere le nostre montagne abbandonate e senza la presenza dell’uomo e del suo lavoro, convinti che così la natura sta rioccupando i suoi spazi come avviene nelle foreste pluviali tropicali».

E il singolo cittadino cosa può fare?
«Da un po’ di tempo a questa parte giornali, televisione e social si stanno occupando di questi problemi. Ci si sente un po’ più coscienti e responsabili e informati che molte volte quello che capita è frutto di un insensato comportamento dell’uomo sia a grandi livelli come la deforestazione dell’Amazzonia e di altre foreste, sia a livello locale come quello che è successo a Ischia dove un consumo del suolo esagerato ha provocato danni prevedibili e purtroppo la morte di tante persone. Forse è arrivato il momento di fare i conti con quel modo di vivere a cui eravamo stati abituati fondato sul consumismo, sullo spreco, sulla produzione di rifiuti, sull’inquinamento dell’aria che respiriamo e sull’avvelenamento delle acque che beviamo. Ritornare a quel modo di vivere di un tempo dove la sobrietà dettava le regole del comportamento diverse dalle attuali regole indirizzate e finalizzate ad un profitto esagerato e non sostenibile. Oltre a fare l’architetto un po’ particolare tanto che per 30 anni mi sono dedicato “all’autocostruzione” dove i soci di una cooperativa, tutti giovani, costruivano con le proprie mani la loro casa, ho fatto anche per circa 40 anni l’insegnante nella scuola media. A scuola avevo costruito una serra dove i miei ragazzi lavoravano e imparavano a sporcarsi le mani con la terra, seminavano, coltivavano l’orto, piantavano patate e si dedicavano anche ai fiori, quel progetto nato negli anni 90’ e continuato finché sono andato in pensione nel 2019 l’avevo chiamato “Contro spreco e consumismo, riciclaggio e sobrietà”».

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Pubblicato il 16 Marzo 2023
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