No, il Cai non ha mai proposto di eliminare le croci dalle cime

"Dovrete passare sul mio corpo per togliere un solo crocifisso da una vetta" ha detto ad esempio il ministro Salvini. Ma in un editoriale del Cai si era parlato di tutelare quelle esistenti, senza installarne di nuove. Un messaggio equilibrato tradito dalla "polemica" successiva, salvo rari casi di interventi più centrati

croce verra

Nel corso del fine settimana il Club Alpino Italiano è stato travolto dalle polemiche – scatenate da esponenti dell’area di governo – sul tema delle croci che marcano le cime alpine, soprattutto in Italia.

«Una sciocchezza, senza cuore e senza senso, dovrete passare sul mio corpo per togliere un solo crocifisso da una vetta alpina, senza se e senza ma», ha sentenziato il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. «Resto basita dalla decisione del CAI di togliere le croci dalle vette delle montagne senza aver comunicato nulla al ministero. Non avrei mai accettato una simile decisione che va contro i nostri principi, la nostra cultura, l’identità del territorio, il suo rispetto. Invito il presidente del Cai a ripensarci», ha commentato la ministra del Turismo Daniela Santanchè.   «Difendiamo i nostri valori, la nostra identità, le nostre radici» ha aggiunto il ministro degli Esteri Antonio Tajani.

Ma davvero si vuole eliminare le croci in vetta come hanno detto Salvini e Santanché?
In realtà, come spesso accade per questo genere di polemiche di giornata, lo scontro verbale ha ampiamente superato i fatti reali, in questo caso la posizione espressa da un articolo dello Scarpone (il periodico ufficiale del Cai) e poi in un intervento del direttore Marco Albino Ferrari ad un convegno di presentazione di un libro (tra l’altro all’Università Cattolica).

L’articolo, di alcune settimane fa e con l’annuncio del convegno, conteneva una sintesi molto chiara della sintesi che il Cai ha fatto sul tema, che è molto e da tempo dibattuto tra appassionati della montagna ed intellettuali di riferimento:

se da un lato sono inappropriate le campagne di rimozione, perché porterebbero alla cancellazione di una traccia del nostro percorso culturale, dall’altro si rivela anacronistico l’innalzamento di nuove croci e, più in generale, di nuovi e ingombranti simboli sulle cime alpine: sarebbe forse più appropriato intendere le vette come un territorio neutro, capace di avvicinare culture magari distanti, ma dotate di uguale dignità.

Peraltro lo stesso titolo dell’articolo proponeva una sintesi chiara: “Croci di vetta: sbagliato rimuoverle, anacronistico installarne di nuove”.

L’articolo chiariva poi in due passaggi il ragionamento:

[…] perché l’Italia si sta rapidamente convertendo in uno Stato a trazione laica, territori montani compresi. Pertanto la croce non rappresenta più una prospettiva comune, bensì una visione parziale.

In secondo luogo perché la montagna è un elemento paesaggistico che, per ovvie ragioni, da sempre si carica sulle spalle una gravosa valenza simbolica, capace di influenzare il pensiero collettivo: il messaggio trasmesso dai rilievi non dovrebbe più riflettere il periodo compreso tra la seconda metà del XIX secolo e la prima metà del secolo successivo (arco temporale nel quale furono installate la maggior parte delle croci di vetta), ma dev’essere riadattato sulle caratteristiche e sulle necessità di un presente che non ha più bisogno di eclatanti dimostrazioni di fede, ma di maggiore apertura e sobrietà.

La polemica è stata subito molto accesa e con toni che hanno indicato quasi come nemici della religione i promotori della riflessione. Lo stesso Cai ha fatto una parziale retromarcia. «Non abbiamo mai trattato l’argomento delle croci di vetta in alcuna sede, tantomeno prendendone una posizione ufficiale» ha detto il presidente generale del Cai Antonio Montani. Mettendo un po’ da parte l’articolo pubblicato dalla rivista ufficiale del club (che costituisce quindi una posizione ufficiale, almeno in parte) ha parlato di «dichiarazioni personali espresse dal direttore editoriale Marco Albino Ferrari durante la presentazione di un libro», appunto alla Università Cattolica.

In modo curioso il presidente del Cai ha aggiunto anche: «Voglio scusarmi personalmente con il Ministro [del Turismo, ndr] per l’equivoco generato dagli articoli apparsi sulla stampa e voglio rassicurare che per ogni argomento di tale portata il nostro Ministero vigilante sarà sempre interpellato e coinvolto». Con l’effetto paradossale di scuse di fronte ad una polemica che ha in buona parte messo da parte il merito della riflessione fatta dallo stesso Club Alpino Italiano.

Va detto che non tutte le reazioni dell’area governativa sono state fuorvianti come quelle di Salvini o Santanché: l’assessore regionale della Lombardia Francesca Caruso (FdI) ad esempio ha inquadrato la proposta in modo corretto – si parla di installazione di nuove croci, non di rimozione di quelle esistenti – esprimendo poi la sua posizione contraria.

Il tema, del resto, non è scontato e anzi vede posizioni molto diverse, come del resto ricordava proprio l’articolo dello Scarpone nel paragrafo di sintesi che riportiamo a inizio di questo articolo. In una società dove le stesse croci esistenti vengono spesso usate anche come “supporto” per inserire altri elementi, dagli adesivi alle bandierine tibetane, in una società interconnessa dove si innestano tradizioni molto diverse, basti pensare alle cime italiane o quelle francesi, per tacere di altri territori europei dove il tema è più delicato (si pensi a quella installata dopo le guerre jugoslave sul monte Hum sopra la città contesa di Mostar, in Bosnia-Erzegovina divisa tra musulmani e cattolici).
Un tema che si può discutere e si discute da anni (anche per la necessità di assicurare restauri e sicurezza), ma che va affrontato con rispetto per le posizioni degli interlocutori.

Tra le poche sintesi corrette dell’incontro che ha generato la polemica, segnaliamo quello di Avvenire che riporta le parole di Marco Albino Ferrari. La stessa curatrice del libro presentato alla Cattolica, dedicato alle croci sulle cime d’Appennino, è poi intervenuta sul suo profilo facebook ricostruendo come era andata.

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Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it

Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare a VareseNews.

Pubblicato il 26 Giugno 2023
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