A Besnate la voce dei migranti che hanno attraversato il deserto e il Mediterraneo
"Io capitano" porta su grande schermo le drammatiche storie di chi migra. E non solo: le proiezioni diventano occasione per ascoltare la voce di chi l'ha vissuto. Come a Besnate sabato, davanti a un pubblico attento
«Dentro di me ci sono cicatrici che solo io posso vedere».
Siaka ha trent’anni, viene dalla Guinea Conakri e oggi in Italia ha una vita e un lavoro, ma le sue cicatrici le racconta per la prima volta, la voce sicura che solo in quel momento incespica appena.
Di fronte a lui un pubblico di centoquaranta persone, riunite tra sala e balconata del cinema Incontro di Besnate, dove è stato appena proiettato “Io capitano”, il film di Matteo Garrone che racconta l’odissea di un ragazzo senegalese attraverso le sabbie del deserto, le violenze in Libia, i rischi dell’alto mare del Mediterraneo.
Nato dal racconto della vicenda personale di Mamadou Kouassi, il film è un pugno nello stomaco per chi ignora il viaggio che i migranti affrontano. Per chi già conosce dà corpo e immagine ai racconti letti sull’inferno libico, dove vige la schiavitù. Ma in questi giorni il film sta facendo anche altro: offre a tanti giovani uomini (e donne) africani in Italia la possibilità di raccontare la storia, rileggerla, forse sentire per la prima volta che diventa qualcosa di comprensibile anche per chi non l’ha vissuta.
Per chi ha vissuto il deserto, la Libia, la traversata, raccontare non è facile: «Spesso mi chiedevano del viaggio anche se mi avevano conosciuto da pochi minuti e questo mi infastidiva», ti dicono molti.
Il film smuove e apre l’anima di chi ha vissuto le violenze e rischiato la morte: «È la prima volta che ho raccontato quello che ho vissuto» ci dice Siaka al termine dell’evento a Besnate. Anche lui – come il protagonista del film – è stato “capitano”: i trafficanti hanno detto a lui e a un altro ragazzo che dovevano prendersi la responsabilità di condurre la barca. «Era un gommone, gonfiato con aria, c’erano centocinquanta persone. Quando eri su non si poteva più muovere nessuno, non riuscivi neppure a spostare una gamba».
Il barcone si è afflosciato nel mezzo del Mediterraneo, quando per fortuna all’orizzonte già appariva una nave della Marina o della Guardia Costiera italiana. «Non so nemmeno io come ho fatto a salvarmi, non sapevo nuotare e sono rimasto appeso al gommone [ormai floscio]. Un bambino si è aggrappato a me, sua madre è finita chissà dove», continua Siaka.
Abdoulaye Ba la sua esperienza invece l’ha portata prima della proiezione del film.
Un racconto “sedimentato”, messo nero su bianco nel libro “In inferna”, uscito nel 2021 e curato da Dario Villa, di Teatro Periferico, che aveva già coinvolto Abdoulaye, Siaka e altri richiedenti asilo in un laboratorio teatrale.
Dall’infanzia in un villaggio di campagna in Senegal all’approdo in Italia, dall’addio nel dicembre 2014 all’arrivo a Lampedusa nel febbraio 2016, il racconto di Abdoulaye Ba – oggi assistente in casa di riposo a Laveno e studente di infermieristica – è un perfetto contrappunto al film di Garrone, consente di ripercorrere il viaggio che passa da Agadez in Niger, prosegue per Sabha in Libia, dal lavoro quasi schiavistico a Tripoli.
Il dramma della traversata del deserto, sia a piedi che su veicoli («la tua vita a bordo di un pick up è affidata a un pezzo di legno» a cui reggersi per non essere sbalzati) contrasta con l’immensità di terra e cielo che lascia Abdoulaye di fronte a sé stesso. La tragedia dei sommersi nel Mediterraneo s’intuisce dietro alle invocazioni dei sopravvissuti che oggi possono raccontare: «Ogni volta che la barca beccava un’onda, sentivi le voci di ogni dio dell’Africa finire per diventare uno», in una fraternità che unisce musulmani e cristiani d’ogni confessione, i copti etiopi ed eritrei, i cattolici dell’Africa occidentale.
Questo doppio racconto – le immagini del film di Garrone, le parole di chi ha vissuto – è un’occasione preziosa, in questo caso donata da Cinema Incontro (sala animata da volontari e con una proposta di qualità) e dal gruppo intorno a Teatro Periferico.
Ma in ogni luogo d’Italia “Io capitano” potrebbe aiutare a riconoscere le storie di chi – venuto dall’Africa e non solo – attraversa le nostre città, vive talvolta nelle difficoltà, ma diventa anche una presenza stabile nella nostra realtà, dalle fabbriche alle case di riposo. Come nella esperienza di lavoro di Abdoulaye e Siaka, che oggi vivono a contatto con gli anziani: «Queste persone hanno la storia di tutto un popolo in mano e molti fatti realmente accaduti», scrive nel suo libro Abdoulaye. E pensa a suo nonno, nato nel 1896, morto a 101 anni di età, fondatore del villaggio che ha lasciato.
TAG ARTICOLO
La community di VareseNews
Loro ne fanno già parte
Ultimi commenti
lenny54 su Caffè, sostegno e dignità: un giorno nella quotidianità dei senzatetto di Varese
Felice su Giovanissimi spruzzano spray al peperoncino in un negozio del centro di Varese
antonio b. (abtony) su "Smettete di schierarvi pro Palestina o pro Israele, siate per la pace"
lenny54 su Tre Valli, il rispetto dovuto ai corridori e quello che i corridori non hanno avuto
italo su Giovanissimi spruzzano spray al peperoncino in un negozio del centro di Varese
Felice su Guasto alla linea elettrica a Garbagnate: circolazione sospesa tra Milano Bovisa e Saronno, disagi per i pendolari Trenord
Accedi o registrati per commentare questo articolo.
L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di VareseNews.it, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.