Il fallimento della strategia commerciale Usa-Cina
Joe Biden inasprisce la strategia per contrastare la costante espansione economica della Cina con ulteriori restrizioni riguardanti gli investimenti tecnologici e i movimenti di capitali in Cina
L’autore di questo articolo è Lorenzo Pasinato del Liuc-Finance & Investment Club dell’Università Liuc di Castellanza.
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Lo scorso 9 agosto, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha rinnovato e inasprito la strategia che da anni gli Stati Uniti stanno intraprendendo per contrastare la costante espansione economica della Cina. Nel documento presentato dal tycoon statunitense vengono proposte ulteriori restrizioni riguardanti gli investimenti tecnologici e i movimenti di capitali in Cina.
Questa decisione, presa dal governo Trump nel 2016 e portata avanti dal presidente Biden, ha come principale obiettivo quello di garantire la sicurezza nazionale. Le tecnologie del Paese del Dragone sarebbero pericolose anche a causa delle recenti escandescenze legate alle dispute sul territorio di Taiwan. Gli Stati Uniti credono che il libero scambio e la collaborazione tra tecnologie americane e cinesi possa risultare estremamente pericolosa e che possa danneggiare la sicurezza nazionale. Pertanto, la motivazione principale che spinge il governo americano a frenare gli investimenti verso la Cina è data soprattutto dalla paura di un possibile sfruttamento militare delle tecnologie dal governo di Beijing (Pechino).
Questa nuova strategia sembra contrastare nettamente le storiche politiche economiche e produttive degli Stati Uniti, che fino all’amministrazione di Trump si erano principalmente concentrate sulla collaborazione economica internazionale con i principali partner globali. In passato, gli Stati Uniti avevano assunto il ruolo di leader nelle politiche economiche mondiali e avevano svolto un ruolo centrale nello scambio e nel commercio internazionale. Tuttavia, questa posizione è ora minacciata dalle crescenti complessità che le catene di approvvigionamento hanno affrontato negli ultimi anni, in parte a causa delle nuove tensioni tra Stati Uniti e Cina, che includono il rischio di conflitti militari legati a questioni territoriali come Taiwan.
La soluzione di Biden
La recente visita in Asia di Janet Yellen, Segretaria del Tesoro degli Stati Uniti, ha esposto la strategia adottata dal Paese, nota come “friend-shoring“. Questa strategia prevede la riallocazione degli investimenti e dei partner degli Stati Uniti sia nel territorio nazionale che in Paesi considerati “alleati” commerciali. Nonostante ciò, comporti iniziali costi aggiuntivi, nel lungo periodo, secondo gli esperti statunitensi, la strategia si rivelerebbe azzeccata anche a fronte di una riduzione considerevole del rischio politico che tale decisione comporterebbe.
Tuttavia, al di là di questa superficiale spiegazione, le motivazioni sottostanti che spingono verso questo spostamento delle catene di approvvigionamento verso gli Stati Uniti sono principalmente di natura economica. Le sfide burocratiche e gli ostacoli nel reperimento di materiali necessari per le tecnologie hanno reso la costruzione e la gestione di queste ultime molto più complesse. L’attuale sistema di catena di approvvigionamento è estremamente intricato e soggetto a nuove normative, poiché mette il sistema statunitense in una posizione in cui non può permettersi di rimanere sottoposto a tali regolamentazioni. In effetti, la catena di produzione americana ha gradualmente spostato il suo fulcro verso Paesi come il Messico, l’India e il sud-est asiatico, cercando di ridurre la dipendenza dal sistema di approvvigionamento cinese, almeno per quanto riguarda la produzione di materiale tecnologico, come batterie e apparecchi elettronici.
Le debolezze della strategia
Tuttavia, dietro alla strategia degli Stati Uniti sembra celarsi un aspetto che ne limita l’efficacia. In realtà, nonostante l’approccio di “friend-shoring“, c’è un’ombra cinese che continua a proiettarsi in modo indiretto su questa tattica. Infatti, gli investimenti e la produzione che gli Stati Uniti cercano di spostare in altri Paesi sono spesso legati a una significativa presenza di capitali provenienti dalla Cina.
In sostanza, le merci cinesi che gli Stati Uniti intendono evitare sembrano essere re-imballate e successivamente vendute attraverso intermediari ad altri Paesi, il tutto ancora sotto l’influenza indiretta del governo cinese. Ciò avviene perché la dipendenza degli Stati Uniti dalla Cina sembra rimanere pressoché inalterata e, purtroppo, è giunta a un punto che appare difficile da invertire. Ad esempio, la Cina continua a esportare materiali e prodotti verso Paesi che gli Stati Uniti hanno designato come nuovi fornitori, ma in realtà questi materiali e prodotti hanno origini cinesi.
In sintesi, la strategia degli Stati Uniti, sebbene ben intenzionata, sembra essere compromessa dalla persistente interconnessione con la Cina. Questo complica gli sforzi volti a raggiungere una completa autonomia dalle catene di approvvigionamento cinesi, poiché il governo di Pechino riesce comunque a esercitare un’influenza indiretta su queste operazioni attraverso intermediari.
Un rapporto dell’agenzia ASEAN, (Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico), di cui fanno parte paesi alleati commerciali statunitensi, riporta che su un totale di 97 prodotti importati, 67 hanno provenienza cinese, ovvero all’incirca il 70%. I prodotti cinesi con il volume di esportazione maggiore nei paesi ASEAN sono quelli elettrici tra cui: batterie, grandi e piccoli elettrodomestici, apparecchiature domestiche e industriali. Le vendite di questi prodotti dalla Cina ai paesi ASEAN hanno generato soltanto nei primi 6 mesi di quest’anno profitti per l’industria cinese pari a $49 miliardi. Ma gli investimenti cinesi non si frenano soltanto nei Paesi asiatici; infatti, in Messico il 40% dei produttori di automobili, che hanno adottato le politiche di reshoring degli Stati Uniti, hanno ricevuto lo scorso anno investimenti diretti dalla Cina per 300 milioni di dollari al mese.
Paradossalmente, la diminuzione degli scambi commerciali tra Stati Uniti e Cina ha portato il governo di Pechino ad aumentare le relazioni con i Paesi alleati statunitensi, andando ad intaccare la strategia americana. Gli USA, aumentando la domanda di prodotti ai nuovi Stati filoamericani, non fanno altro che incrementare di rimando la domanda di investimenti cinesi nei Paesi intermediari.
I rischi per il futuro
Questa situazione presenta due vulnerabilità chiave all’interno della strategia americana. In primo luogo, occorre considerare la complessità delle relazioni commerciali. I Paesi designati come alleati commerciali degli Stati Uniti mantengono una notevole dipendenza dagli investimenti provenienti dalla Cina. Questo implica che in caso di conflitti emergenti tra i due Paesi, potrebbe verificarsi un’instabilità che spingerebbe i fornitori ad agire in modo contraddittorio agli interessi americani. Questo è dovuto al fatto che le loro importazioni dal governo cinese e i legami con Pechino potrebbero provocare una riduzione collettiva del PIL delle singole nazioni, con un impatto combinato stimato al 4%. In secondo luogo, la strategia sembra trascurare o sottostimare l’entità della dipendenza dalla Cina dell’economia americana. In modo paradossale, il processo di disconnessione degli Stati Uniti dalla Cina potrebbe addirittura portare a un rafforzamento delle relazioni tra gli alleati commerciali di entrambi i Paesi. Questa dinamica non rientra nei piani del governo americano.
https://www.aei.org/op-eds/the-wests-de-risking- strategy-towards-china-will-fail/
https://sbilanciamoci.info/le-nuove-mosse-di-biden- contro-la-cina/
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