Telmo Pievani: “Non solo dati, la crisi ambientale è anche questione di emozioni”
Unire linguaggi diversi per rendere più efficace la comunicazione in materia di ambiente. Così nasce "AquaDueO", lo spettacolo di Telmo Pievani e della Banda Osiris in scena il 14 settembre al Teatro di Varese
La storia naturale è un florilegio di imperfezioni, proprio come quella umana. Del resto se non ci fossero le imperfezioni, non ci sarebbe lo spazio per migliorare. Per evolvere non c’è sempre bisogno di una specifica volontà, in alcuni casi è sufficiente l’azione del caso o del fato. In altri basta il verificarsi di alcune condizioni nel medesimo momento.
Può dunque accadere che il destino di un filosofo della scienza e quello di un quartetto musicale, geniale quanto visionario e imprevedibile, si incrocino per condividere lo stesso palco e lo stesso messaggio. È il caso dell’epistemologo Telmo Pievani e della Banda Osiris che il 14 settembre andranno in scena al Teatro di Varese con lo spettacolo “AquaDueO – Un pianeta molto liquido” nell’ambito della rassegna “Varese: arte, natura e ambiente”.
Professor Pievani, mi spiega come e quando il suo destino ha incrociato quello della Banda Osiris?
«È stato per caso, tanti anni fa. Ci misero insieme per fare un esperimento al Festival della letteratura di Mantova. Ricordo che c’era tantissima gente, la Banda Osiris eseguiva i suoi pezzi ironici e dissacranti, mentre io raccontavo le mie storie sull’estinzione. Un’alchimia accolta dal pubblico con grande entusiasmo. Una volta capito che poteva funzionare, abbiamo iniziato a progettare spettacoli con un capo e una coda».
Qual è il filo conduttore di “AquaDueO – Un pianeta molto liquido”?
«È un gioco narrativo ironico, dove simuliamo un congresso scientifico dedicato all’emergenza ambientale. Io faccio lo scienziato vero e i maestri della Banda Osiris fanno finta di fare i ricercatori con le loro scorribande musicali. Il tema è quello della crisi ambientale vista dall’ottica particolare dell’acqua, la risorsa più importante e anche più minacciata in questo momento. L’acqua che manca, l’acqua che ce n’è troppa, l’acqua che ci fa male e che ci uccide. Affrontiamo una serie di problemi: il calo della biodiversità, la fusione dei ghiacciai, la siccità e i migranti ambientali, costretti a lasciare la loro terra a causa della desertificazione. Io racconto una serie di dati scientifici reali, mentre la Banda Osiris li interpreta a modo suo. È uno spettacolo con molto ritmo e con un finale poetico».
Dalla conferenza sull’ambiente di Rio De Janeiro del 1992 in poi, il tono della comunicazione ambientale è stato sempre apocalittico ed è forse anche la ragione del risultato fallimentare. Il vostro spettacolo vuole invertire questa rotta?
«Tutti i miei ultimi progetti nascono da questa considerazione. La comunicazione sui temi ambientali ha fatto due grandi errori: il primo è quello che dice lei, cioè una comunicazione allarmista, molto centrata sulla denuncia, seppur giusta, e sulla preoccupazione. Una comunicazione della scienza monocorde, che insiste solo su questo tasto, genera un effetto assuefazione e soprattutto rassegnazione nelle persone che non credono più nella possibilità di poter fare la differenza. L’altro errore di cui si è accorta la comunità scientifica è che la comunicazione non puoi farla solo con i numeri, i fatti, le evidenze e i modelli. Non basta. Bisogna fare progetti dove si mescolano emozioni positive e negative, dove si usano l’ironia e la dissacrazione che ti permettono di generare un effetto di confidenza nel pubblico. Non si sale sul palco per fare quello più bello e più bravo di tutti e per fare la morale agli altri, ma per far capire che siamo un po’ tutti colpevoli per quello che sta accadendo. È inoltre importante mescolare i vari linguaggi: quello della scienza con la musica, l’arte, la poesia e il teatro. Questa comunicazione è molto più efficace perché tocca tanto la ragione quanto le emozioni. Nei primi quindici minuti il pubblico, spiazzato da questo approccio, è un pò disorientato. Man mano che lo spettacolo prosegue gli spettatori entrano dentro il flusso della narrazione e si lasciano trasportare fino alla fine».
Il nostro pianeta ha vissuto varie crisi ambientali. Che cosa rende così diversa dalle precedenti quella che stiamo attraversando?
«È diversa per due motivi. Questa crisi ambientale e climatica è nettamente più veloce rispetto a quelle che l’hanno preceduta. Quando, per esempio, noi parliamo dei dinosauri, intendiamo catastrofi che sono durate decine di millenni, quindi parliamo di processi lenti, “lente tragedie”, come le definisco io. Questo invece è un cambiamento ambientale che sta accadendo in decenni, in anni. Quindi è una scala temporale molto diversa ed è un primo problema di cui bisogna tener conto perché gli ecosistemi fanno fatica ad adattarsi in tempi così brevi. La seconda differenza consiste nel fatto che questa crisi è causata dalle attività dell’uomo e non da meteoriti, asteroidi o quant’altro. Queste due condizioni generano la conseguenza fondamentale: quelli che ne pagheranno le maggiori conseguenze saremo noi. Perché la vita dopo le catastrofi riparte sempre, ma l’homo sapiens, così focalizzato sul clima avuto negli ultimi dodici millenni, è quello a cui conviene meno cambiare il clima. Quindi l’uomo pagherà il prezzo più caro di questo cambiamento».
Viviamo in un tempo “disruptive”, basti pensare a quello che è accaduto all’economia negli ultimi trent’anni sotto i colpi del digitale, dell’innovazione tecnologica e della globalizzazione. Quanto è profonda la connessione tra il modello economico e il nuovo paradigma ambientale?
«È molto profonda. Tutti noi siamo ancora dentro la fase disruptive e non sappiamo ancora bene quando finirà. Però prima o poi dovremo capire che questa disruption va cambiata in construction. Dobbiamo uscirne in modo costruttivo, ovvero trasformare, per quanto ci è possibile, un grande problema, che ci costerà caro, in una grande opportunità».
La parola sostenibilità indica qualcosa che dura nel tempo, ciò significa che bisogna ragionare avendo uno sguardo di continuità nel tempo?
«La parola sostenibilità nasce quarant’anni fa e la usavano i boscaioli che affermavano un principio: devi tagliare la foresta in modo tale che possa rigenerarsi ogni anno. È un pensiero lungo perché è un pensiero transgenerazionale. Io devo comportarmi oggi in un certo modo per far sì che chi viene dopo di me possa avere la foresta ancora tutta intera come risorsa».
L’uomo nelle fasi di emergenza si rifugia nella fede. Ma spesso le catastrofi umane, come ricorda bene il filosofo Hans Jonas nel libro “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”, costringono l’uomo a rivedere il concetto stesso di Dio come la tradizione ha tramandato, cioè onnipotente e espressione di infinità bontà. Come si inserisce e quanto è importante il tema religioso nel dibattito sulla crisi ambientale e l’estinzione dell’uomo?
«È fondamentale. Quello di Jonas è un capolavoro che si può trasporre anche in questa fase. In quel libro si riflette sull’impatto che il male assoluto, cioè Auschwitz, può avere sulla teologia. Qualcosa di simile sta avvenendo nella teologia cattolica sul tema della natura. La visione tradizionalista, cioè quella di una natura come risorsa a disposizione della specie umana, viene superata dalla “Laudato si’” di Papa Francesco che è portatrice di una nuova visione della natura, intesa come relazione. Andrebbe attentamente riletta, soprattutto negli ambienti cattolici, per la sua radicalità intrinseca e perché non ancora capita a fondo».
Che cosa la colpisce in particolare di quella enciclica?
«C’è una coincidenza perfetta tra la tesi di fondo e quanto vanno sostenendo da vent’anni gli scienziati: la crisi ambientale è anche una crisi sociale, di ingiustizia e di disuguaglianza. Papa Francesco dice infatti che il grido della terra e quello dei poveri sono lo stesso grido».
Fino a pochi anni fa i danni all’ecosistema si chiamavano esternalità, come se la questione non riguardasse il modello economico che li generava. Tra gli economisti e nel dibattito accademico c’è consapevolezza di quanto sta avvenendo?
«Tutti a parole prendono atto che è necessario un cambio di paradigma. C’è la consapevolezza del cambiamento del nostro modello di sviluppo, di consumo, di trasporti e di distribuzione dell’energia, ma manca ancora quella creatività che permette di individuare un modello sostitutivo. Insomma, non c’è una visione sistematica di questo cambiamento. Siamo in pieno travaglio e sappiamo che sarà un percorso un pò lento. A volte saltano fuori soluzioni un po’ strumentali, come, per esempio, tutto il dibattito sulle compensazioni, oppure la proposta di affittare o comprare la terra delle foreste. Altro non sono che soluzioni tampone. Bisognerebbe invece ripensare l’idea di una crescita indefinita e infinita in modo qualitativo piuttosto che quantitativo. È importante riuscire a calcolare in modo oggettivo i costi ambientali, cosa che ancora non facciamo. Gli economisti non sanno dire qual è il risparmio che ho dai servizi ecosistemici. Se li danneggio, quanto dovrò pagare in futuro? Gli economisti fanno ancora fatica a trovare le misure e i parametri. Questo è un punto fondamentale».
Mentre si cerca di orientare meglio la comunicazione della transizione ecologica, qual è il messaggio che non deve passare?
«L’importante è non far passare l’idea che questa transizione sarà lacrime e sangue e perdite di posti di lavoro, perché sappiamo che non è così. L’uomo a suo tempo ha risolto il problema del buco nell’ozono partendo dalle filiere industriali che producevano gas particolari usati nel settore della refrigerazione e delle bombolette spray. Non è che abbiamo smesso di usare o produrre frigoriferi, ma cambiando le filiere industriali, siamo riusciti a produrre frigoriferi in modo più intelligente. Inoltre, abbiamo introdotto innovazione tecnologica creando nuovi posti di lavoro. La transizione ecologica può essere anche innovazione, crescita e miglioramento della qualità industriale delle cose che facciamo».
Dalla crisi usciremo migliori solo se avremo cura della “casa comune”
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