“Violenza al quadrato” quando la vittima è una donna con disabilità. La Fondazione Morandi lancia l’allarme
A Villa Recalcati istituzioni, sanità e terzo settore si sono confrontati su uno dei fenomeni più sommersi e meno affrontati delle politiche antiviolenza: dai limiti della sanità all’inaccessibilità dei servizi, passando per la negazione del diritto alla denuncia
Un mondo pensato solo per gli abili è un mondo che esclude. E spesso fa violenza. Non solo fisica, ma sociale, culturale, strutturale. Di tutto questo si è parlato sabato 13 settembre a Villa Recalcati, sede della Provincia di Varese, nel corso dell’evento promosso dalla Fondazione Morandi per i vent’anni della sua attività. Un’occasione per portare alla luce quella che è stata definita una «violenza al quadrato»: quella subita dalle donne con disabilità, un tema troppo spesso ignorato anche nelle politiche antiviolenza.
A introdurre il tema è stata Valeria Alpi, attivista e scrittrice, che nel libro “La voce a te dovuta” racconta la sua storia di violenza sessuale, collegandola ai tanti ostacoli quotidiani che una persona con disabilità deve affrontare. «È la mentalità comune a fare più male – ha detto – Ci si aspetta che una persona con disabilità si accontenti. Non si pensa che possa essere oggetto di desiderio, né che possa desiderare. Figuriamoci denunciare una violenza».
Spesso sono gli stessi care giver a imporre costrizioni per un non meglio definito “senso di protezione” che impedisce alla persona accudita di crescere, esprimersi, ambire e, semplicemente, avere opportunità.
Alla tavola rotonda che è seguita all’intervento si è messo in evidenza lo stato degli atti, gli impegni già assunti, quelli da mettere in campo, le prassi diffuse e quelle che vanno approfondite.
Numeri vecchi e poca consapevolezza
Il sottosegretario regionale Raffaele Cattaneo ha denunciato la scarsità di dati aggiornati: l’unico riferimento ufficiale dell’ISTAT risale al 2014 e indica che oltre il 36% delle donne con disabilità gravi ha subito violenza. Dati più recenti e più specifici mancano, a conferma della scarsa attenzione istituzionale sul fenomeno. Una ricerca della FISH (2017-2018) parlava di due donne su tre vittime di violenze, soprattutto psicologiche e sessuali.
«La violenza è più difficile da riconoscere, e più difficile da denunciare – ha detto Cattaneo –. Anche perché spesso arriva proprio da chi dovrebbe prendersi cura: parenti, caregiver, compagni». Un dato: l’80% degli episodi di violenza avviene all’interno della cerchia familiare o relazionale più stretta.
Norme recenti, Comuni lasciati soli
Le norme ci sono: la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità e la Convenzione di Istanbul parlano chiaramente di “discriminazione multipla” e invitano a garantire protezione e pari diritti. Ma in Italia l’attuazione è lenta e la responsabilità è in gran parte in capo ai Comuni.
Roberto Molinari, assessore ai Servizi sociali del Comune di Varese, ha ricordato come i Comuni siano spesso l’anello debole della catena: «In Italia abbiamo le leggi, abbiamo i progetti. Ricordiamo che il nostro paese è stato il primo a garantire pari opportunità educative nella scuola. Ma poi la “messa a terra” viene affidata agli enti locali, che faticano per mancanza di fondi e personale».
Salute negata e accesso difficile
Una delle forme più gravi di esclusione è quella nella sanità. «Fare una mammografia o una visita ginecologica è spesso impossibile –ha spiegato Valeria Alpio – I macchinari non sono pensati per chi ha disabilità motorie. In Italia ci sono solo 4 ambulatori attrezzati a ricevere pazienti con gravi disabilità».
La consigliera regionale di Fratelli d’Italia Romana Dell’Erba ha ricordato la necessità di accelerare sulla revisione della legge PEBA, visto che solo il 5,8% dei Comuni lombardi risulta pienamente accessibile.
Le risposte: più formazione, più reti, più accessibilità
Il Prefetto Salvatore Pasquariello ha spiegato quanto le forze dell’ordine stiano investendo in formazione specifica per riconoscere e gestire casi di violenza contro persone con disabilità. Anche nei centri antiviolenza si sta cercando di introdurre operatori esperti, ma la strada è ancora lunga.
Dalla Regione sono arrivati segnali concreti: Alessia Belgiovine, dell’Assessorato regionale alla Famiglia, ha presentato la misura “Vicini ad ogni donna”, un progetto da 3,6 milioni di euro per rendere accessibili i centri antiviolenza e le case rifugio, formare equipe specializzate e creare spazi sicuri anche per chi ha disabilità.
Servizi sanitari integrati e buone pratiche locali
A livello locale si segnala l’esperienza dell’ASST Sette Laghi, che da anni porta avanti il Servizio DAMA, un percorso dedicato ai pazienti disabili. La direttrice sanitaria Adelina Salzillo ha parlato anche del nuovo “Progetto Link” ( ex casa della nutrice), attivo al Pronto Soccorso per accompagnare le vittime di violenza in un percorso di tutela, supporto psicologico e presa in carico. «Oggi manca ancora un “Link disabilità-violenza” – ha detto Salzillo – ma è uno degli obiettivi da sviluppare».
Un cambiamento culturale necessario
Il nodo principale resta però culturale. «Non è solo una questione di patriarcato o di mascolinità tossica – ha osservato la presidente della Fondazione Morandi, Giovanna Scienza –. È l’idea stessa che esista un solo modello di normalità a generare esclusione. Servono politiche, ma prima ancora serve uno sguardo diverso».
Il presidente della Provincia di Varese Marco Magrini ha assicurato il sostegno dell’ente, sottolineando che non è più il tempo di “nuovi tavoli” ma di azioni concrete e inclusive.
Non si tratta di creare nuovi percorsi, ma di rendere accessibili quelli che già esistono. A chiunque. E senza condizioni.
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