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Un minuscolo virus ci interroga tutti sul senso del nostro vivere

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5 Maggio 2020

Egr. Direttore, don Sergio ex parroco di Corgeno, attualmente in pensionamento anticipato sempre a Corgeno dalla sua stessa diocesi per le sue prese di posizioni radicali, mi ha inviato una sua riflessioni sempre molto condivisibile su questo tempo del coronavirus in cui si firma il Pastore di Nazaret. Don Sergio è aperto al dialogo con tutti, per poter superare tutti insieme questo momento di difficoltà e smarrimento sociale.

Emilio Vanoni 

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Riflessioni ai tempi del coronavirus

La pandemia di Covid 19 ci impegna tutti a interrogarci sul senso del nostro vivere, ci rende forzatamente consapevoli dei nostri limiti, di quanto siamo piccoli, di quanto sia insensato il nostro competere gli uni con gli altri e con la stessa natura, con la pretesa di sentirci onnipotenti, come volevano esserlo i costruttori della torre di Babele del racconto biblico.

Un piccolo virus di dimensioni tra 80 e 160 nano-metri (milionesimi di millimetro), impossibilitato a muoversi e incapace di riprodursi senza aggredire, da ospite, le nostre cellule, è in grado di crearci problemi enormi.

La nostra presunzione di onnipotenza, che ci fa pensare di poter essere nelle condizioni di dominare il mondo, è messa radicalmente in discussione. Il male non è soltanto sanitario, ma mette in discussione anche il nostro modello socio-economico. Ci obbliga a chiederci su quali valori abbiamo costruito la nostra convivenza sociale, qual è il percorso che abbiamo disinvoltamente intrapreso. Abbiamo da tempo coltivato i nostri egoistici interessi, relazionandoci con gli altri in funzione di noi stessi, per cui gli altri sono solo consumatori, i clienti, numeri e non persone cui vogliamo bene e di cui ci preoccupiamo. Il modello di vita “americano”, diventato pensiero unico ed esportato in tutto il mondo, mette a repentaglio l’umanizzazione del nostro coabitare, in quanto il suo percorso ci porta verso il baratro.

Non possiamo, quindi, limitarci a proteggerci dal virus, dobbiamo intraprendere un cammino radicalmente nuovo: dobbiamo diventare tutti umani, essere soltanto umani, mettere al centro di tutto l’uomo e i suoi diritti, non il denaro, non il mercato. Dobbiamo renderci conto che istituzioni come la “borsa”, luogo delle molteplici speculazioni finanziarie, spesso criminali sotto l’aspetto etico, non possono più essere giustificate, perché non rispondono a criteri di giustizia. Dobbiamo convenire che le banche dovrebbero essere gestite da quello Stato che più volte in questa emergenza è stato apostrofato, in modo un po’ insolito, come “comunità”.  La gestione da parte di questo stato-comunità le salvaguarderebbe da ogni intento di profitto, dalla preoccupazione di fare affari sul bisogno di altri, che sono i nostri fratelli. Il salario di chi presta servizio in questi enti sarebbe allora garantito dallo Stato stesso attingendo ad un’equa tassazione. Infatti, in questa emergenza, coraggiosamente si è pensato di attivare contribuzioni a fondo perso per situazioni di particolare difficoltà, un evento che non può restare una parentesi da dimenticare nel futuro.

Dobbiamo da ora in poi rivedere il nostro modo di concepire il lavoro, che deve essere finalizzato a garantire i bisogni primari di tutti e non il superfluo, questo anche per non saccheggiare l’ecosistema, inquinando l’aria, le acque, i mari, deforestando l’ambiente naturale. In questi mesi di “blocco totale”, qualcuno ha ricordato che chi ha continuato a lavorare lo ha fatto per garantire la cura dei malati, l’approvvigionamento del cibo, i vari servizi essenziali.

Per questo l’aprire le chiese potrebbe essere l’ultimo problema, in quanto molto spesso da queste chiese si esce come si è entrati, senza la consapevolezza del richiamo evangelico di essere nel mondo senza essere del mondo.  E poi dobbiamo convenire tutti, come ricorda più volte il profeta Isaia, che Dio non può essere comprato con i nostri riti, con le nostre religiose coreografie, più o meno barocche: le chiese non possono e non devono essere un mercato. È la volontà di Dio che dobbiamo fare e la sua volontà è che ci preoccupiamo del nostro prossimo, che lo riconosciamo fratello, che riaffermiamo i suoi diritti e nel contempo i nostri doveri nei suoi confronti: è ciò che ci viene richiamato nel libro del Qoelet «Bada ai tuoi passi quando vai alla casa di Dio e avvicinati per ascoltare, anziché per offrire il sacrificio degli stolti, che non sanno neppure di fare il male».

Tutto ciò è possibile se rivediamo radicalmente il nostro sistema socio economico, se riconosciamo che il denaro non può essere il fine della nostra vita sociale ma soltanto un mezzo di   scambio, con l’intento di farne a meno un giorno.  Nel contempo dobbiamo allargare sempre più le nostre esperienze di comunità, che devono normarsi soprattutto secondo logiche di dono e di gratuità. Dovremmo convenire che solo il lavoro socialmente utile, anche se quasi sempre sottopagato, ha una  comprovata valenza etica,  mentre nessuna giustificazione può essere riconosciuta per  la produzione di beni superflui,  e soprattutto, in questo frangente,  per quella delle armi.

I vari stati, le diverse comunità nazionali, devono farsi carico oggi soprattutto dei bisogni primari di tutti, e non degli interessi delle élite economico finanziarie. Si tratta del diritto al cibo, di garantirlo a prezzi equi, come accade ora per le mascherine; del diritto alla salute, per cui la sanità non deve essere un affare; di quelli all’istruzione, a un’abitazione dignitosa, a tutto ciò che rende  la vita di tutti degna di essere vissuta. Dobbiamo ripensare le città, le grandi megalopoli, che sono un tumore per la nostra convivenza sociale, causa di degrado sociale.

Nella città va portata la cultura del borgo; nei vecchi borghi della nostra penisola, che qualcuno ritiene il più bel paese del mondo, c’è il nostro futuro, il modo di garantire l’ambiente: questi borghi, nella maggioranza dei casi, sono stati risparmiati dal Coronavirus.

Va ripensata la stessa mobilità; abbiamo bisogno davvero di muoverci così tanto? Abbiamo bisogno di esportare sempre, quando molto spesso del nostro prossimo, di quello della porta accanto, non ci curiamo? Questa scarsa cura del nostro prossimo ha comportato che in questi mesi molti, soprattutto anziani, sono venuti a mancare a causa del coronavirus, perché non c’era posto nelle terapie intensive e in qualche ospedale si è dovuto, a volte, decidere chi far vivere e chi lasciare al suo destino. Sono venuti a mancare i ventilatori polmonari, i dispositivi di sicurezza per medici e infermieri, per cui diversi di loro sono morti perché contagiati dal virus.

Oltre a quei carri militari che hanno trasportato le bare con le salme delle persone decedute, per di più senza il conforto dei loro cari, sostituiti dai medici e dagli infermieri, pensiamo anche alle fosse comuni scavate nello stato di New York per le vittime (i poveri) di coronavirus e quelle di Manaus in Brasile e in altri luoghi ancora: fosse comuni che ci rimandano ad altri tempi più o meno lontani.

Ecco allora che sembra quanto mai opportuno l’invito di Corrado Augias “a pensare a una giornata del ricordo e del congedo che richiami alla condivisione di un dramma che ha colpito alcune famiglie, ma ci ha diminuito tutti. Se ne sono andati soprattutto quelli della generazione che ha ricostruito questo Paese dopo la guerra, quelli che hanno visto arrivare la Repubblica e nascere la Costituzione, quelli che per primi hanno conosciuto un po’ di benessere dopo secoli di penuria. Sarebbe bello che per uno o due minuti un certo giorno, al suono d’una sirena, gli italiani si fermassero ovunque si trovino, scendessero dalle auto, venissero alle finestre, in silenzio, muti, consapevoli, partecipando al ricordo, ma esprimendo anche la fiducia che un nuovo inizio sarà, ancora una volta, possibile”.

Un nuovo inizio che dovrà essere un ripartire su altre strade, ben diverse da quelle del recente passato.

Il pastore di Nazaret

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