» Invia una lettera

“Al Cottolengo ho lasciato un pezzo del mio cuore”

1 Stella2 Stelle3 Stelle4 Stelle5 Stelle
Loading...

2 Febbraio 2012

La lettera di uno degli studenti dell’Istituto Prelapi di Saronno che hanno fatto un’esperienza alla “La piccola Casa della Divina Provvidenza”, il Cottolengo di Torino. 

Il Cottolengo o meglio “La piccola Casa della Divina Provvidenza”, fu fondata da Giuseppe Agostino Benedetto Cottolengo, il 27 aprile 1832 a Borgo Dora vicino a Torino, con la speranza di poter accogliere e dare ricovero alle persone più disperate e sole che, altrimenti, non sarebbero potute essere curate in nessun altro luogo. Il Cottolengo diede inoltre vita ad alcune “famiglie religiose”: Suore, Fratelli laici consacrati e Sacerdoti. Oggi “La Piccola Casa della Divina Provvidenza” è un Istituto di carità situato nel quartiere Aurora di Torino. L’Istituto si occupa di assistenza ai portatori di handicap fisici e mentali, agli anziani, agli ammalati in genere, ai minori, ai tossicodipendenti, ai poveri senza fissa dimora e agli extracomunitari. Vivono inoltre nella Casa madre oltre 600 religiose, tra suore operative e a “riposo”.

Tra queste, ve ne sono una trentina dedite unicamente alla preghiera: le suore di clausura. Mi è molto difficile comprendere e immaginare la scelta claustrale, le motivazioni che hanno spinto donne comuni a pronunciare i voti per un’intera vita passata a pregare dentro una cella, senza “mai” poter incontrare altre persone o condurre una “normale” quotidianità. Quando ho chiesto a una di queste suore se si sia mai pentita di questa scelta di vita, lei incredibilmente mi ha risposto che “se dovesse rinascere rifarebbe la stessa cosa”. Credo che sia impossibile capire per la nostra società moderna, così egoista e superficiale, una scelta come questa. Potrebbe sembrare addirittura folle a molti. Ma la vocazione non si discute. E’ una cosa seria! Ho molto rispetto e allo stesso tempo mi sembra un mistero quello che loro chiamano “la chiamata di Dio”. Alcune di loro vivono e lavorano lì da oltre 80 anni! Al Cottolengo non ci sono spazi nascosti o reparti dove, molti credono, vi siano casi particolarmente difficili, i così detti stupidamente “mostri”.

Mi ha colpito l’affermazione di una suora: “I mostri sono fuori”! Certo, non è un luogo di villeggiatura, e il dolore, la sofferenza, la “anormalità” qui è di casa, ma tutto è vissuto con profondo rispetto, dedizione e “familiarità”, perché qui si cerca, per quanto è possibile umanamente, di “umanizzare” la sofferenza. Qui si sperimenta nella presenza del personale religioso e laico che si è vicino all’altro con umiltà, con atteggiamento di rispetto verso chi soffre. In molti casi qui si tocca con mano il mistero della sofferenza. Sì, lo chiamo “mistero”, perché razionalmente non posso concepire il dolore di un essere umano. La sofferenza è l’esperienza dell’assurdo. Qui ci si accorge e si riconosce direttamente che non si può vivere senza l’aiuto dell’altro. Durante la mia settimana di volontariato sono stato assegnato al reparto geriatrico, dove sono ospitati uomini e donne anziani e altri ammalati. Oltre al dramma della sofferenza, ho avuto modo di riflettere, seppure da lontano, anche sul senso del periodo della vita che chiamiamo vecchiaia.

Essa dovrebbe essere un momento di pace per tutti, ma spesso per molti non lo è. Ho potuto riflettere sul fatto che, non sempre si riesce a condurre una vecchiaia serena, poiché sono molti i fattori che possono rendere questo momento un vero e proprio dramma, causa di solitudine, difficoltà, lontananza dagli affetti più cari. Parlando con alcuni anziani ho scoperto che molti di loro vivono solo di ricordi. E per questo amano moltissimo parlare con qualcuno che li sappia ascoltare. Sì, sembra strano, ma al Cottolengo si impara ad ascoltare le persone. Si entra in questa realtà per ascoltare. Credo che sia la solitudine la peggiore sofferenza che affligge molti uomini e donne, che sono stati in passato a loro volta bambini, e adesso sono adulti, genitori e nonni. Ci vogliono molti anni, infatti, per fare un “vecchio”. Una cosa preziosa quindi. E pensare che gli anziani avrebbero una vita intera da raccontare, ricca di saggezza e di tanti consigli importanti e avvincenti per noi giovani, e, purtroppo, molti rimangono in un limbo inascoltato e sterile. E’, in fondo, il dramma del nostro mondo moderno: l’incapacità di saper ascoltare l’altro! Da giovani si sa che al mondo ci sono i vecchi; ma a quest’età si guarda ai vecchi come a una popolazione lontana e inconfrontabile, press’a poco come quando si pensa agli eschimesi o ai watussi. Noi giovani, non ci rendiamo davvero conto che si diventerà come loro e si entrerà nel loro numero. Mentre parlavo con loro, mi sentivo dire più o meno consciamente che passando il tempo ci se ne fa una ragione e allora subentrano, nella vita dell’uomo e della donna, più o meno forzatamente, molti stati d’animo e tra questi, quello basato tutto sui ricordi.

Non avendo più davanti un avvenire prevedibile da colmare mentalmente con le proprie attese e i propri progetti, si è sospinti a guardare indietro, a ripercorrere il tempo andato, e si comincia ad abbandonarsi alle rievocazioni. Passano e ripassano davanti alla loro memoria tutti gli anni che si sono succeduti. E qui ho fatto un’altra scoperta: la catena degli avvenimenti, dai quali sono stati condizionati e plasmati, appare ai loro occhi determinata quasi interamente dalla casualità. Troppe combinazioni, troppe esperienze fatte, troppi incontri che hanno colmato la loro vicenda esistenziale si rivelano oggi in tutta la loro occasionalità. Mi sentivo a volte ripetere: “se fossi nato altrove, o anche solo in un altro angolo della mia città; se mi fossi imbattuto in frequentazioni differenti; se avessi avuto altri insegnamenti e altri esempi di vita; se fossi stato coinvolto in altri accadimenti, è indubbio che non avrei pensato, giudicato, agito come poi mi è avvenuto di agire, di giudicare, di pensare; e adesso sarei diverso da quello che sono.

Certo tutto questo potrebbe sembrare molto triste se la vita non avesse un fine ma solo una fine. È un pensiero che m’inquieta. Facendo questa esperienza mi sono posto tante domande, tutte senza risposta; credo le stesse domande che l’uomo si pone da sempre. Domande sul senso della vita e della morte, sul senso del dolore e delle malattie… riflettendoci bene, in fondo, sono “false” domande, perché la vera domanda non è qual è il senso, ma “come dare senso alla mia vita, nonostante la sofferenza che mi sta intorno?”. Io non so trovare risposte, però qui al Cottolengo c’è una frase che mi ha fondamentalmente incuriosito ed è questa: “Entrate a cuore aperto, vi entreremo nel cuore”. Già il cuore! E un pezzettino del mio cuore è rimasto lì.

Oscar Casagrande dell'Istituto Prealpi di Saronno

Commenti

L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di VareseNews.it, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.

Vuoi leggere VareseNews senza pubblicità?
Diventa un nostro sostenitore!



Sostienici!


Oppure disabilita l'Adblock per continuare a leggere le nostre notizie.