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All’estero per difendere il Made in Italy

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29 Marzo 2011

Egregio Direttore,
 
ci sono modi diversi per reagire agli sconvolgimenti che stanno cambiando la struttura produttiva e commerciale mondiale.
 
Di fronte ai rapidissimi progressi delle “tigri” asiatiche (ma non dimentichiamo anche i passi da gigante con cui si sta muovendo il Brasile), il nostro Paese si è trovato disorientato, non è stato aiutato da una classe politica governativa che si è rivelata inadeguata e disattenta, spesso è caduto preda del panico.
 
La reazione iniziale più diffusa (e più sbagliata storicamente) è stata quella di invocare delle barriere doganali pensando in questo modo di poter arginare l’invasione.
 
Più logica, assolutamente giustificata e pienamente condivisibile, è stata invece la richiesta di concordare una serie di regole uguali per tutti in modo da poter avviare un volano concorrenziale virtuoso e non viziato da sfruttamento della mano d’opera, mancanza di tutela dei minori, insufficiente attenzione ai requisiti di sicurezza dei prodotti.
 
Pensiamo a questo proposito, cito un problema fra tanti, ai danni che sta oggi procurando a larghissimi strati della popolazione la mancanza di controlli sulle modalità di tintura dei tessuti.
 
La politica nazionale ha giocato un ruolo di rimessa in questa partita; noi oggi contiamo poco o nulla in Europa e raccogliamo in questo modo l’amaro frutto di anni di denigrazione delle strutture comunitarie da parte di alcuni partiti.
 
Per peggiorare le cose, come è stato dimostrato dalla lite sul Made in Italy fra due parlamentari europei della nostra provincia – entrambi della maggioranza governativa – da noi si è spesso utilizzata questa materia solo per un po’ di visibilità locale e per tentare di acquisire consensi da parte degli operatori del settore sfruttando la loro esasperazione per la crisi in atto.
 
Occorre ricordare, infine, che alcune amministrazioni locali della nostra zona – anche a causa della mala gestione dei servizi pubblici comunali (di tutta evidenza, a questo proposito lo scandalo AMSC a Gallarate) – non sono certo di aiuto per chi si ostina a lavorare e produrre qui.
 
Altri paesi, forti dell’appoggio di governi capaci e responsabili, hanno affrontato il problema in modo diverso, non solo mettendosi sulla difensiva ma cercando di sfruttare subito gli elementi positivi che nascono dalla rapidissima crescita economica di alcune nazioni del "terzo mondo".
 
Anche in Italia c’è chi l’ha già fatto: secondo gli ultimi dati ISTAT elaborati dall’ICE e riferiti al periodo gennaio-novembre 2010, la Cina si conferma un mercato in costante ascesa per le esportazioni italiane di tessile-abbigliamento con acquisti per 427 milioni di euro e con valori percentuali del +41.8% per l’abbigliamento e +24.1% per il tessile rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
 
Pur essendo la Cina il maggior produttore, con circa 53.000 aziende attive e 10,8 milioni di occupati nel settore, questo mercato rappresenta quindi per i prodotti di abbigliamento italiani la seconda area di sbocco nell’Area Asiatica dopo il Giappone ed è, in generale, il decimo Paese cliente dell’Italia.
 
Il 17,2% dei capi importati in Cina sono italiani: noi siamo il primo fornitore di abbigliamento in tessuto e il secondo di maglieria.
 
Bisogna partire da questi dati e da questa potenzialità per pensare a un modo nuovo di affrontare il “problema Cina” cercando di farlo diventare una opportunità anche per la nostra piccola e media industria.
 
Oggi il numeri dei ricchi, in quella parte del continente asiatico, è superiore a quello dei ricchi europei: per questo motivo ci sono grandi possibilità di lavoro e di affermazione per il nostro “Made in Italy” di alta qualità.
 
In questo senso bisogno indirizzare gli sforzi degli operatori e il supporto delle istituzioni nazionali, regionali e locali.
 
Non dobbiamo solo arroccarci in difesa ma dobbiamo muoverci per entrare con forza in questi nuovi mercati.
 
Questo è l’insegnamento che ci hanno dato generazioni di imprenditori lombardi che hanno fatto grande la nostra regione e questo è il passo avanti che devono fare anche le forze politiche che sono ancora oggi ancorate a un localismo ottuso, senza sbocchi, che ci fa solo regredire.
 
Si facciano pure quindi, a Busto Arsizio, le manifestazioni per la difesa del Made in Italy, servono senz’altro a mantenere desta l’attenzione sul problema.
 
Ma ricordiamoci che ancora più utili e necessarie sono le iniziative concrete, all’estero, per aiutare l’affermazione del nostro prodotto di qualità.
 
In questa ottica noi ci stiamo muovendo come gruppo di imprenditori lombardi coordinati dal Consorzio Cotone Moda; noi siamo oggi in Cina per portare lì il frutto del nostro lavoro e la qualità alta dei nostri prodotti: li portiamo in questi giorni in fiera a Pechino e poi andremo a Shanghai per una serie di incontri con importatori locali.
 
Noi non siamo in Cina a comperare la “fuffa”, noi ci siamo per vendere alla nuova classe media cinese il nostro prodotto MADE in ITALY e la qualità del nostro lavoro.
 
Perché le lamentele possono anche servire per svegliare una classe politica che è oggi in tutt’altre faccende affaccendata ma è poi l’impegno personale che porta, alla fine, i risultati concreti.
 
Ed è questa, in fondo, la differenza fra la “politica parlata” e quella concreta di chi lavora.
 
Un cordiale saluto
Angelo Bruno Protasoni - Gallarate

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