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Il futuro del capitalismo: crollo o sviluppo?

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8 Maggio 2012

Egregio direttore,
Nel 1867 esce il primo volume di un’opera che, secondo l’efficace definizione di un amico dell’autore, è “certamente il missile più tremendo che mai sia stato scagliato in testa ai borghesi”. Ivi Karl Marx Marx individua le invarianti (ossia gli elementi e le relazioni immutabili) del modo di produzione capitalistico, che possono essere riassunte in tre caratteri fondamentali: 1) il capitalismo è orientato alla crescita, necessaria per garantire i profitti e l’accumulazione (quindi, crisi = assenza di crescita); 2) la crescita dipende dallo sfruttamento della forza-lavoro nel processo produttivo (ciò non significa necessariamente che i lavoratori guadagnino poco, ma significa che la crescita dipende sempre dal divario fra quanto i lavoratori guadagnano e quanto creano); 3) il capitalismo è necessariamente dinamico dal punto di vista tecnologico e organizzativo (ciò, nel mentre dipende dalle leggi della concorrenza, che spingono i capitalisti a innovare continuamente, determina un mutamento delle forme della lotta di classe combattuta da entrambe le parti sul mercato del lavoro e per il controllo dei lavoratori). Marx ha dimostrato che queste tre condizioni necessarie del modo di produzione capitalistico sono incoerenti e contraddittorie, che le crisi sono necessariamente immanenti allo sviluppo capitalistico e che non vi è alcun modo in cui la combinazione di queste tre condizioni necessarie possa produrre una crescita stabile e lineare.
 
   Orbene, è vero che non possiamo calcolare quando finirà il capitalismo, ma è altrettanto vero che il suo cuore finanziario è in fibrillazione: se si aziona la valvola che scarica le tensioni è certa la recessione; se si lasciano correre i capitali a briglia sciolta è certa l’‘overdose’ finanziaria con relativa esplosione del sistema. Si tratta di una evidente conferma della teoria marxista e leninista dell’imperialismo, “fase suprema”, quindi ultima, del capitalismo. Il fatto è che è impossibile una crescita infinita in un mondo finito. Infatti, se da un lato l’esplosione del capitalismo in paesi come la Cina e l’India accelera l’accumulo di contraddizioni catastrofiche, dall’altro il mondo intero cerca di escogitare qualsiasi espediente pur di evitarla. L’accumulo di contraddizioni per un marxista non ha segreti ed è descritto, spiegato e previsto nei suoi classici. In sostanza, siccome l’escogitare espedienti non può proseguire all’infinito, il ricorso al controllo statale del processo economico (keynesismo, fascismo, rooseveltismo) si risolverà nel tentativo, da parte di tutti i paesi, di salvare gli Stati Uniti per salvare sé stessi. Nell’impossibilità di costituire un governo mondiale, le borghesie nazionali delegheranno il potere a quella che tra esse è ancora la più forte. La tesi che intendo sostenere è che siamo di fronte non a una crisi congiunturale ma epocale. La catastrofe del sistema coinciderà con il momento più acuto della crisi sulle materie prime e sugli alimenti. D’altra parte, vale la pena sottolineare che la crisi non è “nuova”, poiché è semplicemente un prolungamento (e un aggravamento) di quella che ebbe inizio nella prima metà degli anni ’70 del secolo scorso.
 
   Per quanto concerne gli economisti più accreditati, il ‘refrain’ è questo: si è aperto un periodo di crisi perché siamo entrati in una spirale di non remissione dei debiti. Dopo l’esplosione della bolla immobiliare e l’aggravamento della crisi dei cosiddetti “debiti sovrani”, Nouriel Roubini prevede una catastrofe in dodici tappe, tutte incentrate sulle conseguenze di questa spirale; Robert Manning conferma il tema della spirale e aggiunge che essa avrà effetti perversi, ragione per cui non abbiamo ancora visto niente rispetto a ciò che deve ancora succedere; Paul Krugman insiste sul suo cavallo di battaglia, la sperequazione dei redditi che porta alla fame; Joseph Stiglitz osserva che il capitalismo è diventato profondamente immorale.
 
   Il circolo vizioso è evidente, poiché anche un bambino chiederebbe, a questo punto: “Ma perché si è aperta la spirale dei debiti non onorati?”, e la risposta tautologica sarebbe: “Perché la crisi è stata prodotta dalla crisi”. Sennonché sia gli algoritmi economici inventati per cercare di capire il movimento virtuale dei capitali, sia le opinioni moralistiche degli economisti rappresentano, ancora una volta, la febbre, il sintomo, mentre della malattia va analizzata l’eziologia profonda. Prendiamo, dunque, la formula del saggio di profitto: s = pv/(c+v) ovvero: saggio di profitto uguale a plusvalore diviso il totale del capitale anticipato (impianti e materie prime più salari); com’è noto, Marx la elabora e poi la semplifica, rapportando anche “c” a lavoro e pluslavoro, per cui ne ricava: s = pv/v; inoltre, alla fine del terzo libro del “Capitale” riduce il tutto al solo saggio di sfruttamento puro e semplice: pv/v, perché assume che la sommatoria dei profitti individuali sia uguale al plusvalore totale e, quando si arriva al dunque, è inutile usare termini diversi per definire la stessa cosa. Il procedimento di Marx è ineccepibile: la formula del saggio di profitto descrive un fenomeno locale (profitto del singolo capitalista, della singola sfera di produzione ecc.) che può variare, mentre quella del saggio di sfruttamento esprime lo stato del capitalismo globale.
 
   Ora, essendo il Pil (prodotto interno lordo) la somma di tutti i valori prodotti, cioè la massa totale del plusvalore più la massa totale del salario: V = pv+v, ne consegue che il rapporto fra i due termini ci dà la situazione di classe nel mondo. Il valore totale V risulta, pertanto, uguale a 65.500 miliardi di dollari ed è aumentato nel corso del 2007 del 5,2%. L’aumento è dovuto quasi esclusivamente a Cina (11,5%), India (8.4%) e Russia (7,2%). I paesi caratterizzati da un aumento del Pil hanno prodotto valore nuovo; quelli che ristagnano hanno soltanto consumato quello prodotto. D’altra parte, la popolazione mondiale è cresciuta meno che in passato (1,17%), quindi è cresciuto in alcuni paesi il Pil ‘pro capite’. Ma questo decremento non è avvenuto nei paesi a capitalismo maturo. Perché? Perché qui è aumentata la produttività, cioè la produzione per addetto, che fa scendere il valore unitario delle merci, le quali debbono essere prodotte in maggior quantità affinché se ne tragga lo stesso profitto. E ciò accade proprio mentre diminuiscono i consumi a causa del pauperismo che si estende anche tra le fasce medie di reddito (effetto, questo, della sovrappopolazione relativa e assoluta). Risultato: non vi è più alcuna crescita esponenziale dell’economia mondiale. Anche paesi come la Cina e l’India vedono diminuire i loro incrementi di crescita (in termini di produzione di valore) di anno in anno. È sempre crescita, ma sempre meno sostenuta.
 
   Come si vede, l’origine della crisi non è nei mutui, nei “debiti sovrani” o in altri epifenomeni, ma, al contrario, è l’esistenza della crisi di produzione di plusvalore a provocare la disperata ricerca di espedienti per la valorizzazione dei capitali. Il cerchio non si chiude, ed ecco perché i capitalisti raschiano il fondo del barile nella folle speranza di vedere il loro denaro passare da D a D’ nella circolazione: vendono titoli-spazzatura che inglobano i mutui dei poveracci, le loro carte di credito insolventi, perfino i ‘futures’ sulle loro pensioni e sulle loro tombe. Per le stesse ragioni prenotano il petrolio a venire e si buttano sul ‘business’ dell’etanolo, sulla dislocazione delle loro industrie in Cina, sulla speculazione monetaria ecc. ecc.
 
   Certo, non vi è persona a cui non piacerebbe sapere con precisione in quale tratto della curva della crisi ci troviamo, perché è noto che l’elettroencefalogramma del capitalismo non può assolutamente giungere ad essere piatto del tutto, pena la catastrofe. Ma vi si giungerà, è matematico. Il ‘quando’ è un’incognita, la cui saturazione dipenderà dall’incontro delle ‘curve fondamentali’, che sono: la produzione e il consumo di petrolio e di materie prime; la crescita della popolazione e del valore totale prodotto; la crescita della produttività, che fa diminuire il valore per unità prodotta.

Enea Bontempi

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