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Il populismo

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4 Agosto 2009

Il populismo, per quanto appaia oggi politicamente rampante, è in realtà segnato da un congenito difetto epistemico, quello derivante dalla contrapposizione tra generale e particolare, che, se può spiegare la sua momentanea incidenza di massa nella fase attuale caratterizzata dal disorientamento politico-culturale e dall’assenza di visioni complessive della società e della storia dotate di forza mobilitante, ne determina in modo altrettanto necessario quello che è il suo limite intrinseco e insuperabile. Quest’ultimo emerge non appena si considera il rapporto inversamente proporzionale che intercorre, nel concetto logico di ‘popolo’, tra l’estensione di tale concetto, che designa la ‘totalità’ degli oggetti che si riferiscono ad esso, e l’intensione, che designa soltanto uno o più oggetti che rientrano nella classe logica in parola. Così, in base al primo significato abbiamo il popolo come ‘demos’, mentre in base al secondo abbiamo il popolo come ‘ethnos’. È evidente allora che il ‘demos’, in quanto ha un significato estensivo, è anche inclusivo: ciò implica che una popolazione che ha un’identità comune in forza di un territorio comune, di una storia comune e di una lingua d’uso comune, nonché di istituzioni e di diritti comuni, ‘include’ anche l’‘ethnos’, ossia un popolo che ha caratteri più specifici, quali la razza, la religione e particolari diritti. Al contrario, il popolo in quanto ‘ethnos’ esclude costitutivamente da sé coloro (altri popoli) che non hanno tali caratteri,ossia non appartengono a quella razza, a quella religione ecc. ecc. Di conseguenza, chi vuole comunità aperte opterà per il popolo come ‘demos’, mentre chi le teme sceglierà il popolo come ‘ethnos’. Dal punto di vista economico, sociale e culturale dovrebbe essere altrettanto evidente (non solo la superiorità etica ma anche) la maggiore utilità politica, rispetto a quella ‘etnica’, della prospettiva ‘democratica’, che è in grado di produrre, soprattutto per la convivenza civile e per le generazioni future, risultati a lungo termine di gran lunga più vantaggiosi. È sufficiente chiedersi: utilità per chi e per quanti? In tal modo risulta palese come un certo concetto di popolo risulti utile a tutti e perché un altro concetto di popolo, quello ‘etnico’, venga adoperato per legittimare (non i diritti di tutti ma) i privilegi particolari di gruppi ristretti. Sempre a questo proposito, vi è poi da fare un’altra considerazione, e cioè che, da quando il genere umano esiste ed opera, la storia ha dimostrato che la strada maestra dell’incivilimento passa attraverso le mescolanze e il meticciato, non attraverso i recinti e i ghetti, che è quanto dire attraverso l’universalizzazione dei diritti, contrapposta alla istituzione dei privilegi per questa o quella razza, per questa o quella regione, per questa o quella classe. Asserire che le diversità biologiche tra le razze e le stirpi producono diversità morali e culturali e che l’ordinamento politico-giuridico deve conformarsi ad esse è quindi un modo per ‘naturalizzare’ ed eternizzare le disuguaglianze politico-sociali esistenti.

Un’altra antinomia che affligge le concezioni populistiche è quella che fa capo al dualismo tra lingua nazionale e dialetti locali. Il fatto che si pretenda di privilegiare la conoscenza dei dialetti rispetto a quella della lingua nazionale non è soltanto frutto di ignoranza storico-culturale e analfabetismo glottologico, ma è anche, se non soprattutto, un’operazione ideologica con la quale si punta a riproporre, utilizzando il dialetto come veicolo, l’ideologia dei localismi, della tradizione più stantìa e dell’idiotismo di marca medievale. La natura ideologica culturalmente regressiva e schiettamente reazionaria di questa operazione si manifesta nella moda dei cartelli stradali e toponomastici in dialetto locale: una proliferazione in cui l’ideologia localistico-vernacolare celebra il carnevale, per dirla con Hegel, della ‘cattiva infinità’, poiché non vi è luogo, per quanto sperduto, che non possa far valere una sua specificità dialettale o idiomatica. Da questa antinomia grottesca aveva messo in guardia, già cent’anni orsono, Karl Kautsky, teorico marxista del periodo della Seconda Internazionale, allorché aveva osservato che «una valle montana stretta e isolata, lontana dalle strade di grande traffico e che produce quanto basta per gli abitanti, può sviluppare una lingua particolare e mantenerla per secoli; gli abitanti della regione di un grande fiume, che serve loro come strada commerciale, facilmente finiranno invece per formare una più estesa comunità linguistica». Muovendo da questa premessa Kautsky giungeva alla necessaria conclusione per cui, quando la comunità nazionale si unifica attraverso una comune lingua scritta usata e compresa dalle varie comunità locali, allora gli idiomi della valle e del bacino fluviale, le «lingue parlate dai singoli popoli nell’àmbito di questa nuova comunità nazionale regrediscono a semplici dialetti».

Questi due tipi di antinomie spiegano dunque il momentaneo successo delle concezioni populistiche, ma fissano anche i confini entro cui tale successo è destinato, per ‘la contradizion che no’l consente’, a introflettersi, a rifluire e ad esaurirsi.

Eros Barone

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