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Il problema dell’egemonia fascista negli “anni del consenso”

benito mussolini
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17 Novembre 2016

La disputa sul numero effettivo dei docenti universitari (12 o 18?) che prestarono il giuramento di fedeltà al regime fascista rischia di lasciare nell’ombra il vero problema storico che quell’episodio pone in luce, cioè l’egemonia politica e intellettuale esercitata da tale regime sui restanti 1200 e passa e, più in generale, su ampi settori d’intellettuali di tendenze e opinioni diverse. Esempio tipico di questa egemonia fu la vicenda dell’Enciclopedia italiana, la monumentale opera in trentadue volumi pubblicata tra il 1929 e il 1937, promossa e in parte finanziata dall’industriale illuminato (e fascista) Giovanni Treccani e diretta sul piano scientifico da Giovanni Gentile. Orbene, ancora una volta, come accadde nello stesso lasso di tempo con il giuramento, ciò che sorprende non è l’assenso delle migliaia di intellettuali che, con l’unica eccezione di Benedetto Croce che rifiutò, accettarono di collaborare a quest’opera, ma la mancanza di consapevolezza circa il significato politico che tale collaborazione assumeva rispetto al regime fascista. Il quesito che sorge allora spontaneo è: quali furono le ragioni di un’adesione così massiccia? Si possono evocare, a questo proposito, l’ideologia della neutralità del ceto accademico rispetto alla politica, il convincimento che la collaborazione all’Enciclopedia sarebbe stata utile alla nazione indipendentemente dal regime che, attraverso le persone di Treccani e di Gentile, l’aveva promossa e la dirigeva, e tutta una serie di sfumature intermedie fino all’aperto fiancheggiamento del regime. Ad ogni modo, mai come in questo caso trova conferma la definizione, perfettamente valida anche oggi, che il sociologo Pierre Bourdieu ha dato del ceto intellettuale: sezione dominata della classe dominante.

Quel che è certo è che Gentile, il quale aveva ben presenti queste diverse ma convergenti ragioni, le sfruttò per instaurare, attraverso il progetto dell’Enciclopedia, una vasta egemonia culturale, le cui radici profonde affondavano nel periodo precedente la Grande Guerra e le cui conseguenze, altrettanto profonde, si manifesteranno nel secondo dopoguerra. Diversamente, la collaborazione della maggioranza degli intellettuali liberali (fra i quali anche alcuni di coloro che si erano rifiutati di prestare il giuramento) resterebbe inesplicabile e non si capirebbe, se non citando il “servum pecus” di oraziana memoria e scambiando l’effetto per una causa, come sia stato possibile che essi abbiano accettato di collaborare alla realizzazione di un progetto che si situava con inequivocabile chiarezza entro il quadro politico fascista. Il successo di questa operazione di costruzione dell’egemonia, che, aggiungendosi all’istituzione dell’Accademia d’Italia, contribuì a fare degli anni Trenta, secondo la nota definizione di De Felice, “gli anni del consenso” al regime fascista, fu pienamente rivendicato da Gentile, il quale, in polemica con taluni esponenti del fascismo estremo che lo accusavano di culturalismo e intellettualismo, così caratterizzò la sua impresa: «Questo, per me, è fascismo… quel fascismo che può affermare con giusto orgoglio: io non sono partito, ma sono l’Italia».

È dunque con lo spessore e con la complessità di questa vicenda storica che occorre fare i conti, rendendo omaggio, come è giusto, a quegli intellettuali che seppero assumere, animati dalle più diverse motivazioni, una posizione dignitosa in difesa della libertà di insegnamento e di ricerca, ma senza indulgere ad antistoriche e fuorvianti identificazioni, di matrice tardo-azionista, tra l’antifascismo e la cultura, né tampoco ad un antifascismo da ‘anime belle’ che ignora la raccomandazione di Machiavelli, pilastro della modernità e punto capitale di ogni seria politica, “a non partirsi mai dal bene, ma saper entrare, se necessitato, nel male”. Pertanto, a differenza di Fabio Minazzi, il quale disconosce, in base all’imperativo kantiano, il significato politico della tattica comunista che permise a docenti universitari quali Antonio Banfi e Concetto Marchesi, nonché ad un buon numero di militanti operai e contadini comunisti, di continuare la loro attività politica e ideale nelle organizzazioni fasciste durante gli anni più difficili della clandestinità, io ritengo invece che quella scelta abbia avuto non solo un significato politico, ma anche un valore morale più alto di quella, pur nobile ma impotente nella sua limitata dimensione testimoniale e individuale, che ebbe il rifiuto del giuramento. Ed ebbe tale valore perché permise di tessere le fila di un’attività potenzialmente di massa che, coinvolgendo quadri operai, contadini, giovanili e intellettuali, si rivelò quanto mai preziosa allorché, con la seconda guerra mondiale, maturò e quindi esplose la catastrofe del regime fascista. La domanda è perciò la seguente: è stata moralmente superiore l’azione che si è limitata a combattere gli effetti del male, ossia il giuramento imposto dal regime fascista, o l’azione che, violando formalmente la “santità del giuramento”, ha lavorato a creare le condizioni per combattere le cause del male?

Sennonché ciò che dell’ampio intervento di Minazzi colpisce è (non tanto l’autopromozione dell’ultima sua fatica storico-filosofica quanto) la citazione di Ignazio Silone, evocato a guisa di ‘auctoritas’ e al fine di coonestare una consunta visione ‘antitotalitaria’ basata sull’equazione tra fascismo e comunismo, visione degna dei tempi della guerra fredda ma già sintonizzata su un loro possibile ritorno: Ignazio Silone, una figura politicamente perversa, ex comunista, probabile agente dell’OVRA (si veda in merito il libro di Dario Biocca e Mauro Canali, L’informatore: Silone, i comunisti e la polizia, 2000) e lancia spezzata dell’anticomunismo nel periodo della guerra fredda.

Infine, vorrei invitare Minazzi ad un minimo di umiltà e di prudenza nell’uso dei toni polemici, perché, se egli nella chiusa del suo intervento si paragona addirittura a Goethe, affermando sconsolato che, “se la balena ha i suoi pidocchi, anche lui deve sopportare i suoi”, sarà lecito allora domandargli: a) come mai, per liberarsi da pidocchi così fastidiosi, abbia fatto ricorso ad un cannone; b) se la citazione più appropriata del grande Goethe poteva essere quella, tratta dal suo capolavoro “Faust”, del proctofantasmista, simpatico personaggio in cui Goethe adombra un illuminista coevo, Friedrich Nicolai, che curava i suoi deliri spiritualistici applicandosi delle sanguisughe…

Eros Barone

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