La coscienza di classe, questa sconosciuta
9 Marzo 2008
Egregio direttore,
ringrazio Antonio di Biase, di cui apprezzo, tra l’altro, l’intelligenza e la fermezza con cui conduce la battaglia contro le posizioni razziste, xenofobe e secessioniste (un ottimo esempio di lotta di classe sul piano politico-ideologico), e rispondo volentieri alle importanti questioni che mi pone (cfr. la sua lettera dell’8 marzo).
Osservo, quindi, che, dal punto di vista del materialismo storico, le classi sono formazioni oggettive definite da rapporti sociali di produzione, che consentono di estrarre pluslavoro e plusvalore ai produttori diretti, e che tale sfruttamento, poiché di questo si tratta, può far nascere negli sfruttati (e sottolineo ‘può’, perché questo fatto può anche ‘non’ accadere) un senso di coesione e una percezione dell’interesse collettivo, che dipendono dalle possibilità di azione comune esistenti in un certo luogo, in un certo tempo e in un certo ambiente. Ciò significa, dunque, che la coscienza di classe delle classi dominate varia considerevolmente, mentre, di norma, le classi dominanti ne sono sempre altamente dotate. Ciò che non varia allo stesso modo, invece, è la resistenza allo sfruttamento, che costituisce anch’essa un altro fattore, parimenti oggettivo, che concorre a definire la classe sociale in quanto tale. Tale resistenza, comunque, non è necessariamente né consapevole né collettiva, poiché la lotta di classe è immanente agli stessi rapporti fra le classi, così come lo sfruttamento e la resistenza contro di esso. D’altra parte, aderire ad una concezione sostanzialmente idealistica della lotta di classe, che rifiuta di considerarla tale in assenza di una coscienza di classe e di un conflitto politico in atto, significa diluirla a tal punto che, in molte situazioni, praticamente essa svanisce. Sennonché, una volta svanita la lotta di classe, diventa possibile negarne del tutto l’esistenza, ad esempio, negli odierni Stati Uniti d’America o tra imprenditori e lavoratori in Europa o, ancora, tra padroni e schiavi nell’antichità, poiché in ognuno di questi casi la classe sfruttata non ha, o non aveva, una coscienza di classe né ha intrapreso alcuna azione politica comune, oppure lo ha fatto solo in alcune rare occasioni e in misura limitata. Va detto perciò che questa concezione finisce, in ultima analisi, con lo svuotare di significato non solo il “Manifesto del partito comunista”, ma anche gran parte dell’opera di Marx.
Come si sa, Marx ed Engels non erano proletari, ma diedero l’esempio di persone che, pur essendo esterne alla classe, si assunsero un duplice compito (da questo nasce il “Manifesto” del 1848): quello di costituire un partito e quello di dare, attraverso la costituzione di questo partito, coscienza di classe a una classe che spontaneamente non la possiede, segnando in tal modo una differenza decisiva in un lungo processo storico che aveva visto la borghesia impegnata, attraverso un’attività secolare coronata da notevoli successi, nel formare i propri intellettuali. Certo, gli ‘Arbeiter’ di cui parla Marx non coincidono necessariamente con la classe operaia (ciò avviene in una situazione storica specifica), tanto che oggi vi è una tendenza molto forte a far coincidere la fine del proletariato con la fine della classe operaia. Ma questa è un’identificazione impropria, poiché Marx ed Engels pensavano alla classe degli sfruttati, cioè dei proletari, e tutta la loro visione dipendeva dall’idea che, con il processo storico in atto e sulla base della previsione di cui erano capaci (ed erano capaci di forti previsioni), le due classi fondamentali avrebbero ridotto allo scontro decisivo tra borghesia e proletariato tutto l’insieme dei conflitti sociali.
Per rispondere al quesito sulla ‘rivoluzione’, che Antonio mi pone, ritengo necessario richiamare le “Tesi di filosofia della storia” di Walter Benjamin, che è forse uno dei più grandi pensatori del Novecento. Questo testo straordinariamente incisivo non è caratterizzato dalla condanna (scontata) del nazismo, ma dall’accusa, rivolta alla socialdemocrazia, di essere responsabile della rovina del proletariato, avendo distrutto la sua coscienza di classe e avendo tolto la volontà di combattere alla classe operaia. Questo è un punto fondamentale, che va ribadito una volta per tutte sul piano storico, e la cui sottolineatura mi consente anche di rispondere, almeno in linea di principio, al quesito sulle forme di lotta, precisando che la lotta di classe non esclude per nulla, come accade nelle posizioni infantili dell’estremismo, il rifiuto del compromesso, che è qualcosa che si può fare, per l’appunto, solo a partire da una posizione di classe forte e coerente, la quale è poi la ‘conditio sine qua non’ di un grande compromesso storico (si pensi alla Costituzione italiana).
Il secondo punto importante, sottolineato da Benjamin, consiste nel rilevare che il proletariato ha commesso un errore micidiale quando si è proposto di pensare alla felicità dei figli e dei nipoti, giacché il problema è, invece, la vendetta: noi, in quanto rivoluzionari comunisti, siamo nati per vendicare le sofferenze dei padri e non esiste coscienza di classe se non esiste odio di classe (si ricordi il mònito di Bertolt Brecht, amico di Benjamin e confutatore, in anticipo, del buonismo veltroniano: “essere buoni significa distruggere coloro che impediscono la bontà”). In altri termini, di fronte alla borghesia che non solo sfrutta il proletariato, ma nutre anche un odio mortale per esso e possiede una piena coscienza del proprio ruolo di classe dominante, è inaccettabile che la stragrande maggioranza dell’umanità non abbia coscienza di classe e sia rappresentata da proletari di fatto o, ancor peggio, da quei sottoproletari che sono definiti nel “Manifesto” come “infima putrescenza della società borghese”. Delle sofferenze patite dai propri padri e avi non meno che del “sangue innocente versato in passato”, così come delle crescenti sofferenze patite da noi stessi nella nostra carne, occorre prendere coscienza, e farsi carico di un’azione conseguente sul terreno politico, organizzativo, teorico e ideologico, senza confondere il contrasto tra poveri e ricchi con la vera scissione che divide oggettivamente la società in due grandi campi contrapposti: la scissione tra sfruttatori e sfruttati (laddove vale la pena di precisare, sgombrando il terreno dagli equivoci delle concezioni miserabilistiche, che si può essere sfruttatori ed essere poveri e si può essere sfruttati ed essere ricchi).
Dunque, una volta elaborata scientificamente, la coscienza di classe si riassume nella proposizione chiave: “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, poiché l’idea fondamentale che sta al centro del pensiero marxista e comunista è che l’ultima classe che può rivestire un ruolo decisivo nello sviluppo storico è quella che potenzialmente è in grado di porre fine alle lotte di classe. Come ultima classe del processo storico essa non si limita a conquistare il potere politico per sostituirsi alla classe che dominava in precedenza, ma, attraverso la mediazione della “dittatura del proletariato”, con l’abbattimento quindi della dittatura borghese, mira a porre fine, una volta per tutte, alle dittature storiche e ad aprire la via al “regno della libertà”. In questo senso, come ha sottolineato Marx, la rivoluzione comunista non è necessaria soltanto perché è l’unico mezzo per rovesciare la classe dominante e conquistare il potere politico, ma perché solo con la rivoluzione il proletariato potrà togliersi di dosso tutto il sudiciume ereditato dalla vecchia società. Occorreranno dieci, cento, mille anni? Non lo so. Quello che so è che la borghesia ha impiegato secoli per arrivare al potere e che tale costatazione riguarda minimamente il breve tempo della nostra esistenza, anche se non cambia di un millimetro il problema del “che fare?”, che ci sta dinnanzi.
Ciò detto, provo anche a definire, per l’essenziale, la risposta che dobbiamo dare, come marxisti, alla cruciale domanda sul “che fare?”. Non è mia intenzione predicare una ‘imitatio Christi’; affermo però che il percorso di Lenin, fondato sul nesso tra teoria e prassi e, nella fattispecie, sul nesso tra scienza e strategia, strategia e tattica, tattica e organizzazione, filosofia e politica, è un percorso che conserva un significato oggettivamente esemplare. A mio giudizio, il compito dei marxisti è oggi quello di lavorare, muovendo dagli apparati in cui òperano (scuola, stampa, sindacati ecc.), per riconnettere il marxismo al proletariato e viceversa, radicandosi nelle tre grandi tendenze del processo storico individuate dai fondatori del socialismo scientifico: la riduzione del lavoro necessario (resa possibile dalla meccanizzazione e dalla informatizzazione dei processi produttivi), lo spostamento in avanti delle frontiere tra società e natura (reso possibile dalla rivoluzione scientifico-tecnica), la formazione di un’umanità integrata (resa possibile dalla costituzione di un mercato mondiale). Così, per riprendere lo stupendo paragone usato da Antonio Gramsci in una delle sue “Lettere dal carcere”, essi si comporteranno esattamente come si comportò l’esploratore norvegese Nansen allorché rimase intrappolato nei ghiacci con la sua nave e decise di resistere avanzando lentamente assieme alla banchisa polare fin quando essa non si fosse sciolta.
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