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La fronteria del petrolio

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24 Novembre 2007

L’effetto valanga si è inesorabilmente innestato. Il rialzo delle quotazioni del greggio, attratto dallo sguardo ipnotizzante di Benjamin Franklin, viaggia ormai spedito verso il biglietto verde da 100 dollari, per ogni barile di petrolio. La sindrome della paura non fa più 90 e la frontiera del doppio zero già si presenta facilmente perforabile.

Le spie clignottano, i livelli si abbassano e le scorte sfumano. Le trivelle in affanno si surriscaldano, la febbre sale e le borse europee bruciano ingenti capitali, come se fossero fascine in fiamme nella notte di S. Giuseppe.

Preghiere laiche e sguardi anelanti sono tutti rivolti verso La Mecca , verso le terre delle “Mille e una notte”. O meglio, ad Abu Dhabi, dove fra qualche settimana si riunirà l’Opec, il potente cartello dei produttori di oro nero. E il fremito della speranza è tutto concentrato nella decisione liberatoria di una significativa maggiore apertura dei loro preziosi rubinetti.

La concessione, però, rischia di assumere gli improbabili caratteri di un miracolo. Sono troppi, all’interno dell’organizzazione, a propendere per mantenere immutato l’adeguamento che i mercati hanno fissato al prezzo del greggio. In una fase di indebolimento della moneta americana è ovvio che le quotazioni salgano. In pratica, non è il petrolio che costa di più, ma è il dollaro a valere di meno.

Non c’è genio o lampada di Aladino che possa proporre, al momento, soluzioni alternative. Solo un incremento dell’offerta potrebbe provare a calmare gli animi e contenere la corsa verso il centone americano, riportando l’ago del segnale sui 75-80 dollari al barile.

Certamente la domanda è in crescita esponenziale, Cina ed India sono spugne planetari. Ma a fare da enzima e catalizzatore al processo impennante del listino-barili, in fondo, è soprattutto la stanchezza, tradotta in debolezza, dello sguardo spento di Benjamin Franklin.

Antonio V. Gelormini

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