La questione palestinese

5 Gennaio 2016
Egregio direttore,
Dopo aver letto la lettera della signora Ariel Shimona Edith Besozzi, sento il dovere politico, storico e morale di intervenire per demistificare una ricostruzione della questione palestinese, quale è quella contenuta nella summenzionata lettera, che tende, mutuando dalla propaganda imperialistica del sionismo il tono, i contenuti e gli stilemi, ad espungere dalla storia e dalla politica internazionale non solo l’identità, ma addirittura l’esistenza stessa di un popolo palestinese e della sua lotta per affermare il diritto all’autodeterminazione nazionale.
Mi rendo conto, tuttavia, che capire ciò che sta accadendo in Palestina non è facile, anche perché il sistema dei ‘mass media’, largamente asservito alla voce del padrone, che in questo caso è quella dello Stato di Israele, non ci aiuta ad orientarci correttamente su questo terreno.
Occorre, inoltre, aggiungere che l’evocazione, in chiave emotiva, del tema dell’antisemitismo e dell’Olocausto, nonché la diffusa ostilità nei confronti del mondo islamico, impediscono a molti europei una valutazione razionale delle responsabilità politiche dei soggetti coinvolti: gli Stati Uniti, Israele, i paesi arabi, le organizzazioni palestinesi.
Orbene, contrariamente a quanto afferma la signora Besozzi, la quale per coonestare l’occupazione della Palestina non si pèrita di ricorrere, in chiave fondamentalista, perfino alle genealogie bibliche (l’‘invenzione della tradizione’ essendo, a partire dai Pelasgi di giobertiana memoria, un vettore mitopoietico essenziale dei nazionalismi espansionistici), nei decenni a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, periodo durante il quale le potenze europee, ‘in primis’ l’Inghilterra, decidevano le sorti della Palestina e incoraggiavano il movimento sionista ad occuparla, la Palestina non era un deserto. Era, al contrario, un paese dove da millenni viveva una comunità politica e civile formata da oltre seicentomila persone.
I palestinesi parlavano l’arabo, erano in gran parte musulmani sunniti e coesistevano con minoranze cristiane, druse e sciite, che usavano anch’esse la lingua araba.
Grazie al suo elevato grado di istruzione, la borghesia palestinese costituiva dunque un’élite della regione del Vicino Oriente: intellettuali, imprenditori e commercianti palestinesi occupavamo posti chiave nel mondo politico arabo, nella burocrazia e nelle industrie petrolifere del Golfo Persico.
Questo era il quadro sociale e demografico della Palestina nei primi decenni del Novecento fino alla vigilia della proclamazione dello Stato d’Israele nella primavera del 1948, quando in Palestina era presente una popolazione autoctona di circa un milione e mezzo di persone (laddove gli ebrei, nonostante l’imponente flusso migratorio del dopoguerra, superavano di poco il mezzo milione).
Orbene, l’intera parabola dell’invasione sionista della Palestina e dell’autoproclamazione dello Stato di Israele ha il suo fulcro in una operazione ideologica da cui deriverà una sistematica strategia politica: la negazione, per l’appunto, dell’esistenza del popolo palestinese.
L’obiettivo dei maggiori esponenti sionisti, da Theodor Herzl a Moses Hess, da Menachem Begin a Chaim Weizman, è stato pertanto quello, per un verso, di azzerare l’esistenza della popolazione nativa e, per un altro verso, di squalificarla come barbara, arretrata e indolente.
Questa rappresentazione di comodo, tipica della panoplia ideologica del colonialismo, serviva chiaramente a legittimare l’idea che il compito degli ebrei sarebbe stato quello di occupare un territorio semideserto per modernizzarlo.
Va da sé che la ripresa, da parte del sionismo, della ‘missione civilizzatrice’ dell’Europa escludeva, per definizione, ogni collaborazione della popolazione autoctona che non avesse carattere banausico e subalterno,. Non meraviglia perciò che la prima grande battaglia che i palestinesi hanno dovuto ingaggiare dopo la costituzione dello Stato d’Israele sia stata quella per il riconoscimento dell’esistenza della nazione palestinese. Il loro obiettivo precipuo è stato quello di affermare, non solo contro Israele ma anche contro i paesi arabi circonvicini, come l’Egitto, la Giordania e la Siria, la loro identità storica e il loro diritto all’autodeterminazione. Soltanto nel 1974 le Nazioni Unite riconosceranno formalmente l’esistenza di un soggetto internazionale denominato Palestina e individueranno in Yasser Arafat il suo legittimo rappresentante.
Sennonché la negazione dell’esistenza di un popolo nella terra dove lo Stato ebraico mirava ad inserirsi è un tratto caratteristico del colonialismo e, in buona sostanza, del razzismo, due elementi che caratterizzano sin dalle sue origini il movimento sionista: un movimento, peraltro, strettamente legato alle potenze coloniali europee e da esse sostenuto in varie forme. Dopo aver infatti concepito il progetto di costituire in Argentina, in Sudafrica o a Cipro la sede dello Stato ebraico, la scelta del movimento sionista cadrà sulla Palestina non solo e non tanto per motivazioni religiose, quanto perché, come fu detto dagli ideologi sionisti, la Palestina è «una terra senza popolo per un popolo senza terra».
È in un contesto prettamente coloniale come quello testé delineato che si compirà l’esodo forzato di grandi masse di palestinesi (non meno di settecentomila) ad opera soprattutto del terrorismo praticato da organizzazioni sioniste come la Banda Stern e come l’Irgun Zwai Leumi, tristemente famosa per la strage degli abitanti (oltre 250) del villaggio arabo di Deir Yassin. Dopo la prima guerra arabo-israeliana, l’area occupata dagli israeliani si espanderà passando dal 56 per cento dei territori della Palestina, assegnati in forza della raccomandazione della Assemblea Generale delle Nazioni Unite, al 78 per cento, includendo fra l’altro l’intera Galilea e buona parte di Gerusalemme. Infine, nel 1967, a conclusione dalla guerra dei sei giorni, come è noto, Israele si impadronisce anche del restante 22 per cento, si annette illegalmente Gerusalemme Est e impone un duro regime di occupazione militare agli oltre due milioni di abitanti della striscia di Gaza e della Cisgiordania, sottoposti alla sistematica espropriazione delle terre, alla demolizione di migliaia di case palestinesi e alla cancellazione di interi villaggi. Ma è la vicenda degli insediamenti coloniali nei territori occupati della striscia di Gaza e della Cisgiordania ad essere emblematica della vocazione colonialista, che contrassegna lo Stato israeliano.
La conclusione che sgorga da questa sequenza storica, economica, ideologica e militare è, come afferma giustamente Edward W. Said nel suo saggio sulla «Questione palestinese» (2011), che il ‘peccato originale’ dello Stato di Israele è il suo carattere strutturalmente sionista.
In altri termini, il fondamentalismo sionista è riuscito ad attuare, usando la carta della persecuzione antiebraica e della tragedia dell’Olocausto, la progressiva conquista della Palestina dall’interno, in modo tale da accreditare in tutto il mondo (non solo in quello occidentale) l’idea che l’elemento autoctono sia costituito dagli ebrei e che stranieri siano i palestinesi.
In questa inversione della realtà risiede sia il nucleo della tragedia che ha colpito il popolo palestinese sia la ragione principale delle sue molte sconfitte. Il sionismo si è quindi assicurato, per questa via, un vasto consenso e un sostegno generale da parte dei governi e dell’opinione pubblica europea, così come non è accaduto per alcun’altra impresa coloniale.
Ma in un simile ‘lucus a non lucendo’ sta anche l’errore storico commesso dalla classe dirigente israeliana e dalla potente élite ebraica statunitense che ne ha sempre sostenuto le scelte politico-militari. Il popolo palestinese esisteva in Palestina prima della costituzione dello Stato di Israele, continua ad esistere nonostante lo Stato di Israele ed è fermamente deciso a sopravvivere allo Stato di Israele, nonostante le sconfitte, l’oppressione e la distruzione dei suoi beni e dei suoi valori.
Eros Barone
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