La rivolta in Tibet
16 Marzo 2008
Egregio direttore,
di fronte alla rivolta scoppiata nel Tibet e alle isteriche speculazioni che, sotto la regia della Cia, un vasto fronte di forze sta innestando per alimentare un clima di avversione nei confronti della Cina e del suo regime, il primo dovere è quello di ‘rerum cognoscere causas’, impegnandosi in un attento esame della storia, che rifugga da quelle facili e vaporose mitizzazioni sul Tibet che hanno preso piede anche nelle file della sinistra.
In realtà, dal film “Sette anni in Tibet” alle seduzioni di certo turismo “estremo”, dalla tendenza a vedere modelli validi in civiltà rimaste primitive e tagliate fuori dal processo della storia sino alla sistematica disinformazione diffusa dai potenti ‘mass media’ statunitensi, per tacere del fascino che su certi occidentali delusi e spaesati esercitano le religioni e le ideologie esotiche ed esoteriche, vi è tutta una retorica, più o meno abilmente orchestrata, che confluisce in un’affabulazione, della quale sono stati vittime in primo luogo proprio i tibetani. I quali sono certamente uno dei popoli più poveri del mondo e, come tali, sono esposti a molteplici forme di oppressione: fra tali forme di oppressione quella cinese è stata con ogni probabilità meno gravosa di quella esercitata dalla casta feudale dei monaci e dall’aristocrazia, della quale i pastori e i contadini erano fino al 1959 ‘schiavi’, nel senso letterale del termine, in quanto sottoposti allo ‘jus vitae ac necis’ dei loro padroni. Che poi i diversi gruppi sociali, anche se con esiti ben diversi, trovassero conforto nel ricorso ad una delle forme più degradate di buddhismo (il buddhismo tantrico tibetano, popolato di fantasmi e di incantesimi, ha ben poco a che vedere con la meditazione intellettuale e con la creatività artistica del buddhismo zen), rientra semplicemente nella patologia oppiacea che caratterizza ogni religione in quanto forma di alienazione.
Per fare dunque un minimo di chiarezza, la prima cosa che è necessario precisare è che il Tibet non è stato conquistato dalla Cina comunista nel 1950: esso fu infatti conquistato dall’impero cinese nella prima metà del secolo XVIII e da allora è stato considerato parte integrante dello Stato cinese da tutti i governi della Cina, anche dal Guomindang. La Cina, dal canto suo, è uno Stato multietnico, nel quale sono in corso da millenni trasferimenti di gruppi etnici e soprattutto fusioni dei gruppi periferici entro quello più importante che rappresenta i nove decimi dei cinesi ed è sempre stato capace di offrire ai suoi membri una maggiore prosperità e i benefici derivanti da una cultura più pragmatica. Da questo punto di vista, mettere in discussione la natura multietnica della civiltà e dello Stato cinesi significherebbe mettere in moto la più devastante catastrofe degli ultimi secoli. Per altro, quella praticata dalla Cina non è mai stata una politica di “pulizia etnica”, bensì di fusione entro una società contraddistinta da una comune cultura e da comuni pratiche produttive: i cinesi non hanno sterminato le minoranze, le hanno comprate. È vero che i tibetani per ragioni geografiche sono, entro lo “Stato del Centro”, il gruppo più lontano dalla comune cultura; tuttavia, da 250 anni sono stati sempre governati da funzionari cinesi nominati dal governo centrale. Gli inglesi, dal canto loro, giunti all’apice del loro potere sull’India all’inizio del secolo XX, intrapresero una serie di manovre per staccare il Tibet dalla Cina e porlo sotto la loro influenza, giungendo nel 1913 a convocare una conferenza a Simla nella quale le autorità tibetane cedettero vasti territori all’India britannica. Nessun governo cinese ha mai accettato la validità di quella conferenza. Nel periodo precedente il 1949 il governo del Guomindang considerava il Tibet, a pieno diritto, parte del proprio territorio, tanto che durante la seconda guerra mondiale concesse il diritto di sorvolo agli aerei alleati.
Non ha quindi alcun senso dire che la Cina conquistò il Tibet nel 1950; nel 1950 le forze di Mao Zedong completarono con il Tibet il controllo sul territorio cinese; nel 1951 fu raggiunto un accordo con il Dalai Lama per la concessione di un regime di autonomia. Verso il 1957, nel pieno dell’assedio statunitense alla Cina, i servizi segreti inglesi e americani fomentarono una rivolta di gruppi di tibetani arroccati sulle montagne delle regioni cinesi del Sichuan e dello Yunnan, lungo la strada che dalla Cina porta al Tibet; i cinesi repressero certamente la rivolta con pugno di ferro, né, d’altra parte, nelle circostanze internazionali nelle quali si trovavano, era ipotizzabile un comportamento diverso. Il copione, allora come oggi, è sempre lo stesso: sull’onda della rivolta, il Dalai Lama dichiarò decaduto l’accordo per il regime autonomo e fuggì con la maggioranza della classe dirigente tibetana in India, dove costituì un proprio governo in esilio e il proprio centro di propaganda, tuttora operanti. Nessun governo al mondo ha riconosciuto questa compagine. Qualche anno fa la Cia ha ammesso di aver finanziato tutta l’operazione della rivolta tibetana.
Dopo il 1959 il governo cinese espropriò monasteri e aristocratici e “liberò gli schiavi”, iniziando una politica di modernizzazione forzosa (vaccinazioni e costruzione di opere pubbliche, l’ultima delle quali è la più alta ferrovia del mondo), nonché di formazione di una classe dirigente locale, i cui figli, durante la ‘rivoluzione culturale’, distrussero templi e monasteri, infliggendo gravi danni al patrimonio culturale tibetano. Dopo la morte di Mao, i governanti cinesi hanno cercato di ristabilire i rapporti con i tibetani, migliorando le condizioni economiche dell’altipiano e favorendo il trasferimento di un gran numero di cinesi, non solo militari. Hanno anche trattato indirettamente con il Dalai Lama, che, peraltro, non chiede l’indipendenza, ma una più o meno larga autonomia: Pechino, dal canto suo, non ha mai voluto concedere un reale autogoverno, che aprirebbe rischi di secessione e metterebbe in discussione tutti i rapporti etnici del grande paese asiatico. Alle spalle del Dalai Lama si è sviluppato, intanto, un coacervo di interessi che fa capo alla classe dirigente tibetana nata all’estero, dove tale classe ha ricevuto una formazione culturale moderna: è questa classe che chiede l’indipendenza, che però potrebbe essere ottenuta solo con una guerra spietata alla Cina e potrebbe trovare il punto di innesto nel reclutamento di giovani guerriglieri in India.
Erano, dunque, dissennati i governanti cinesi che ritenevano che l’attacco alla Serbia motivato dalla difesa dei “diritti umani” in Kosovo fosse in effetti la prova generale di un attacco alla Cina? Abbiamo dimenticato le vittime del bombardamento dell’ambasciata cinese di Belgrado, avvenuto ‘per errore’? E, infine, la rapida sequenza fra la secessione del Kosovo, riconosciuta dagli Usa e da altri paesi della Ue, fra cui l’Italia, l’esplodere dell’attuale rivolta e l’approssimarsi delle Olimpiadi, che si svolgeranno in Cina, non induce alla riflessione? La domanda da cui partire è sempre la stessa, se non si ritiene che si tratti di semplici coincidenze: ‘cui prodest?’.
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