La spedizione dei Mille e l’intelligenza politica di Garibaldi
6 Giugno 2010
Non vi è dubbio che l’impresa dei Mille costituisca il punto culminante della storia del Risorgimento e che Giuseppe Garibaldi, il quale con quella spedizione ha unito il sud al nord della nostra lunga penisola, sia il principale artefice della nazione italiana. L’impresa dei Mille fu, infatti, il punto focale di un’iniziativa politica e militare senza la quale l’Italia, come Stato unitario, non sarebbe mai nata. Detto in altri termini, ciò significa che senza l’iniziativa democratica garibaldina l’Italia come entità politica unitaria non sarebbe mai sorta e i suoi confini si sarebbero fermati alle soglie dello Stato pontificio o, al più, a quelle del Regno delle Due Sicilie.
Sennonché vale la pena dissipare un equivoco che spesso grava sull’interpretazione di questi eventi e che riguarda il protagonista dell’impresa dei Mille. Garibaldi, si sostiene, fu un uomo di grande ardimento, di straordinaria generosità, di fervido patriottismo, nonché di eccezionale saggezza e abilità militare, ma, quanto all’intelligenza politica o alla visione ideale, fu inferiore al Cavour e allo stesso Mazzini. In realtà, i fatti storici dimostrano l’acuta consapevolezza politica che Garibaldi ha rivelato nei momenti nodali della sua azione e anche in quei momenti intermedi, come durante i periodi di ‘esilio’ trascorsi a Caprera, in cui egli delinea un’ampia e articolata visione politica, testimoniata dai documenti e, in particolare, dalla sua corrispondenza con le maggiori personalità del movimento democratico europeo.
Questa acutezza fu colta da osservatori non solo italiani ma anche stranieri, che seguirono la spedizione dei Mille con uno sguardo attento agli aspetti politici che caratterizzarono la liberazione del Mezzogiorno d’Italia dal dominio borbonico. Il più attento fra questi osservatori fu Friedrich Engels nelle corrispondenze che andava scrivendo per i giornali statunitensi. Il cofondatore, assieme a Karl Marx, del socialismo scientifico manifestava infatti tutto il suo apprezzamento per la saggezza e l’abilità dispiegate da Garibaldi nel gettare, a mano a mano che la spedizione avanzava, i semi delle nuove istituzioni politiche. Si spiega allora la ragione per cui, quando arrivò a Napoli come dittatore ‘pro tempore’ dell’Italia liberata, Garibaldi ebbe contrasti politici anche duri non solo con gli emissari di Cavour, ma anche con Mazzini e con Cattaneo, i quali erano accorsi a Napoli sperando di ottenere l’adesione del Generale ad un progetto repubblicano che segnasse il compimento della rivoluzione democratica da lui avviata. Il merito storico e l’intelligenza politica di Garibaldi si rivelarono, invece, nella decisione con cui questi si sottrasse a scelte che in quel momento non avrebbero avuto alcuna possibilità di successo.
I garibaldini portarono in Sicilia una rivoluzione non solo militare, ma anche politica e culturale: questo dato di fatto va sottolineato energicamente contro le interpretazioni di tipo ‘continuistico’ o ‘trasformistico’ che disconoscono la complessa e dirompente valenza che assunse, nella tumultuosa congiuntura siciliana del 1860, l’azione democratica delle ‘camicie rosse’, cioè di un esercito di volontari che prima strappò il controllo dell’isola e poi quello del resto del regno al potente esercito regolare borbonico. Così, come si desume da una sua corrispondenza del maggio del 1860, Engels esprime, di fronte a quella azione, tutta la sua sorpresa e giunge ad affermare che Garibaldi in Sicilia dimostrava qualcosa di “meraviglioso”: «Finalmente, dopo tutte le più svariate e contraddittorie informazioni riceviamo qualche notizia che sembra degna di fede sulla meravigliosa marcia di Garibaldi da Marsala a Palermo. Si tratta, invero, di una delle più stupefacenti imprese militari del nostro secolo, impresa che sembrerebbe quasi inconcepibile se non fosse per il prestigio che precede la marcia di un generale rivoluzionario trionfante. Il successo di Garibaldi prova che le truppe regie di Napoli sono tuttora terrorizzate dall’uomo che ha tenuto alta la bandiera della rivoluzione italiana in faccia ai battaglioni francesi, napoletani e austriaci, e che il popolo della Sicilia non ha perduto fede in lui e nella causa nazionale». La testimonianza di Engels conferma che senza il consenso dei siciliani l’impresa garibaldina non avrebbe avuto l’esito positivo che ebbe.
Orbene, l’arrivo di Garibaldi in Sicilia non fu avvertito soltanto come l’arrivo di un liberatore, ma anche come l’avvento di colui che avrebbe riscattato le popolazioni siciliane dalla miseria e dall’arretratezza. Non vi è alcun dubbio, peraltro, che un uomo come Garibaldi e le ‘camicie rosse’ che lo seguivano avrebbero voluto fare, assieme alla rivoluzione nazionale, anche una rivoluzione sociale. Tuttavia ciò non era possibile, e proprio da questa impossibilità nascono, già durante la stessa spedizione in Sicilia, il dramma di Bronte (4 agosto 1860), ove il luogotenente di Garibaldi, Nino Bixio, represse l’insurrezione contadina che aveva attaccato la grande proprietà terriera, e più tardi, tra il 1861 e il 1866, i moti sociali delle plebi meridionali che sfociarono nel brigantaggio.
Questi eventi, se da un lato spingono a riflettere sui limiti oggettivi del Risorgimento, su quello che si è fatto e su quello che non si poteva fare, dall’altro non tolgono nulla alla grandezza e all’importanza del Risorgimento e del suo punto focale che fu, per l’appunto, la spedizione dei Mille in Sicilia. Né va dimenticato, ad ulteriore riprova della lungimiranza politica di Garibaldi, che dopo la liberazione della Sicilia, contro il parere di Cavour il quale che non avrebbe voluto tale prolungamento, la spedizione continuerà con lo sbarco in Calabria (19 agosto 1860), da dove la marcia trionfale di Garibaldi arriverà, senza interruzioni né diversioni, sino alla battaglia finale del Volturno (inizio di ottobre del 1860).
La battaglia di Reggio Calabria (21 agosto 1860) fu, dal punto di vista militare, la battaglia strategicamente decisiva, perché fu condotta contro una fortezza munitissima presidiata da migliaia di soldati borbonici armati sino ai denti e perché portò, sùbito dopo, alla resa di altre migliaia di soldati borbonici a Soveria Mannelli (30 agosto 1860). Lo stesso Garibaldi, nelle sue “Memorie”, afferma che tale battaglia fu fondamentale e che se i garibaldini non avessero vinto a Reggio Calabria l’impresa sarebbe fallita. Nel frattempo l’opinione pubblica europea e americana assisteva, con un misto di incredulità e ammirazione, a questa folgorante operazione militare. Un’operazione che, traendo la sua forza irresistibile da un vigoroso impeto politico e ideale, aveva determinato, nel volgere di pochi mesi, il dissolvimento di un intero Stato e posto le basi della nascita dell’Italia unita.
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