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Le ragioni della sconfitta del ’68

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21 Giugno 2008

Egregio direttore,

rispondo all’importante quesito sulle ragioni della sconfitta del ’68, che mi ha rivolto Arianna Brusati.

In primo luogo, occorre tenere presente che, dopo il grande ciclo di lotte operaie, popolari e studentesche degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, durissima fu la reazione delle classi dominanti: la trama reazionaria (il ‘filo nero’ che percorre tutta la storia dello Stato italiano) si concretò in stragi (a partire da quella di piazza Fontana, che ebbe luogo a Milano il 12 dicembre 1969), attentati, tentativi golpisti, repressione e intimidazioni senza fine. La sanguinosa ‘strategia della tensione e del terrore’ fu l’arma con cui le classi dominanti cercarono di intimorire e disorientare il proletariato e le masse studentesche per fermarne il movimento di lotta. Il gruppo dirigente del Pci, intimorito dalla reazione borghese e dal colpo di Stato militare in Cile, che aveva dimostrato il fallimento delle teorizzazioni riformiste sulla ‘via pacifica al socialismo’, elaborò, a questo punto, per impulso e sotto la direzione di Enrico Berlinguer, la strategia del ‘compromesso storico’, cioè del patto di governo con la Dc (l’attuale Pd è una versione ‘bonsai’ di tale strategia). Da Berlinguer partì la proposta, rivolta alla Dc, della politica di ‘solidarietà nazionale’, che, nel nefasto triennio 1976-1979, si tradusse dapprima nella ‘non sfiducia’ al governo Andreotti e poi nell’ingresso diretto del Pci nella maggioranza governativa. La politica berlingueriana di ‘unità nazionale’ modificò profondamente i rapporti di forza tra le classi in Italia, indebolendo il proletariato e i movimenti antagonistici, rafforzando lo Stato e la Dc, e creando le premesse per la controffensiva reazionaria scatenata, negli anni ’80, dal capitalismo contro il movimento operaio. Da questo punto di vista, la trasformazione del Pci in ‘partito operaio borghese’ (secondo la classica definizione di Engels e di Lenin), prima della sua finale liquidazione ad opera di Occhetto e di Napolitano, non è stata semplicemente l’opera soggettiva di un gruppo dirigente revisionista. È opportuno sottolineare, a tale proposito, che questo gruppo era l’espressione di una precisa realtà sociale, rappresentata dal crescente predominio, all’interno di quel partito, dell’aristocrazia operaia, della burocrazia sindacale, della piccola borghesia e degli strati intellettuali legati a queste classi e frazioni di classe. “Oggi”, osservava Lenin già nel 1916, “il ‘partito operaio borghese’ è inevitabile e tipico di tutti i paesi imperialisti”.

La progressiva trasformazione (e, infine, liquidazione) del Pci è stata, quindi, un importante fattore soggettivo della involuzione e della sconfitta della ‘generazione del ’68’, che in tal modo restò priva di un punto di riferimento politico, culturale e strategico essenziale nella lotta rivoluzionaria per trasformare in senso democratico e socialista gli assetti sociali esistenti. D’altra parte, i diversi tentativi che furono compiuti dalle organizzazioni della sinistra extraparlamentare (Lotta continua, Avanguardia Operaia, gruppi marxisti-leninisti ecc.) per costituire un punto di riferimento alternativo al Pci attraverso la fuoriuscita dall’università e la ricerca di un rapporto con i nuclei più combattivi del proletariato di fabbrica, stretti come furono fra l’emergere della strategia della lotta armata e l’incombere della ‘strategia della tensione e del terrore’, non si rivelarono all’altezza del compito, che si pose con forza ed urgenza negli anni ’70, di realizzare quella ‘massa critica’ che avrebbe potuto dare ad un partito comunista di tipo nuovo una vasta base sociale e un peso significativo nello scontro di classe. In realtà, quei tentativi si risolsero in un ‘mixtum compositum’ di soggettivismo, volontarismo ed economicismo, e si rivelarono (non come il superamento ma) come l’espressione politica e ideologica dei limiti e delle contraddizioni interne di un movimento di massa che presumeva di risolvere il problema della propria autonomia e del proprio consolidamento elevando il livello dello scontro, senza peraltro riuscire a sanare la scissione tra obiettivi immediati (le lotte rivendicative per la democratizzazione della scuola e della società) e obiettivi strategici (la lotta per il comunismo).

In secondo luogo, non bisogna dimenticare le conquiste che furono ottenute dai movimenti di lotta del ’68 e del ’69 (quest’ultimo, a distanza di mezzo secolo dal ‘biennio rosso’ 1918-1920, fu l’anno della più potente esplosione della soggettività operaia nella storia del nostro paese). Alcune di tali conquiste sono tuttora presenti nella costituzione formale e materiale del nostro paese: si pensi allo Statuto dei lavoratori (maggio 1970), una legge dello Stato che garantisce fondamentali diritti sindacali e politici, e alla cosiddetta legge Basaglia (legge 180 del maggio 1978), che ha abolito i manicomi (ancora oggi l’Italia è l’unico paese del mondo in cui non esistono formalmente istituzioni di questo tipo) e promosso l’integrazione dei malati mentali nella società, liberando, oltre ai ‘matti’, anche i mancini, gli adolescenti ai quali la scuola imponeva la regola della scrittura con la mano destra.

A partire dal 1973, con un’economia mondiale in piena recessione, ebbe inizio una fase di profonda ristrutturazione: nella grande industria furono automatizzati i processi produttivi e fu avviato il superamento dei modelli rigidi di organizzazione del lavoro di tipo fordista-taylorista; migliaia di lavoratori furono licenziati; fu esteso il decentramento della produzione, si ebbe una crescita della piccola e media impresa e si ampliò l’area del lavoro precario, sommerso, nero e a domicilio. Questo mutamento della base produttiva, congiunto all’espansione del settore terziario, genera il contesto economico e sociale in cui si afferma l’‘autonomia del politico’ (intesa come gestione, anche in forma consociativa, del potere politico-istituzionale), che troverà la sua espressione più caratteristica nella linea del ‘compromesso storico’, nel venir meno di un’opposizione di sinistra e nella progressiva riduzione della ‘rappresentanza’ a ‘governabilità’ (sono le premesse di quel regime oligarchico e neocorporativo che si è ulteriormente consolidato con le ultime elezioni). È l’onda lunga della ristrutturazione, della ‘rivoluzione passiva’ e della svolta in senso neoliberista che, con Reagan e con la Thatcher, sfocerà nel 1980: l’anno della sconfitta storica del movimento sindacale alla Fiat, l’anno della ‘resistibile ascesa’ di Craxi, l’anno del ‘mistero’ di Ustica e della strage alla stazione di Bologna, che segna il culmine (e la vittoria) della ‘strategia della tensione e del terrore’ scatenata nel 1969. I rapporti di forza si sono radicalmente modificati a favore delle classi dominanti; la ‘grande paura’ del ’68 è finita; ha inizio il cosiddetto ‘riflusso’, cioè il passaggio da un’egemonia della sinistra ad un’egemonia della destra, che comincia ad affermarsi allora e, rafforzandosi sempre di più attraverso gli eventi epocali degli anni ’80 e ’90, giunge sino ai nostri giorni.

La terza parte di questo intervento sulle ragioni della sconfitta del ’68 ha un carattere autobiografico: chi scrive appartiene, infatti, alla ‘generazione del ’68’, una generazione che non intende assolutamente idealizzare né tantomeno contrapporre a quella odierna, anche perché ritiene che la sua generazione si possa dividere in tre parti: una parte che si è felicemente integrata nel sistema che aveva contestato; un’altra parte che ha fatto la scelta radicale della lotta armata contro il sistema, pagando con la morte o con il carcere il prezzo di tale scelta; una terza parte che è stata emarginata (o ha scelto di restare ai margini), rifiutando sia di comandare sia di obbedire in una società fondata sulla corsa al successo e sulla ricerca dell’arricchimento ad ogni costo. Chi scrive desidera sottolineare che è questa la parte cui si onora di appartenere, la parte che del ’68 conserva una consapevolezza che è talmente fondamentale per chiunque abbia a cuore la propria (e l’altrui) libertà, che ho ritenuto doveroso evocarla come uno dei “tre slogan di rara potenza” di quell’‘annus mirabilis’: “chi non fa politica la subisce”, indicandone anche l’autore, che è don Lorenzo Milani (giova qui ricordare che uno dei filoni ideali del ’68 è quello che fa capo al ‘dissenso cattolico’ e alle ‘comunità di base’). Una consapevolezza che è fondamentale perché aiuta a comprendere che la libertà non è una concessione o un regalo, ma va conquistata, pagando, se occorre, anche un duro prezzo.

Purtroppo, la ‘generazione del ’68’, ossia degli attuali ultracinquantenni, non è stata in grado se non in misura assai modesta di trasmettere la parte più valida e significativa della sua esperienza politica, ideale e morale alle generazioni successive, né il clima di restaurazione modernizzante che ha seguito quegli ‘anni formidabili’ ha reso più facile questo compito. È così accaduto che i ragazzi di oggi abbiano molti professori, ma ben pochi ‘maestri’, anche se i ragazzi di oggi sentono, e a volte esprimono in modo palese, il bisogno di ‘maestri’ (i ragazzi del ’68 li avevano e anche per questo poterono contestarli). Sia chiaro che qui non ci si riferisce ai guru o ai demagoghi, ma ai maestri autentici, quelli capaci di aiutare i giovani a scoprire il mondo in se stessi e se stessi nel mondo, risvegliando sotto la cenere della loro apparente indifferenza il fuoco dell’entusiasmo.

La storia dell’Italia repubblicana dimostra, peraltro, che tutte le svolte del cinquantennio sono state segnate da un marcato protagonismo giovanile: così fu per la ‘generazione delle magliette a strisce’ che, quando nel giugno del 1960 i nostalgici di un passato vergognoso rialzarono la testa, scese nelle strade e nelle piazze per contrastare quel rigurgito, dando vita ad una Nuova Resistenza e suscitando perfino lo stupore delle forze democratiche e antifasciste delle generazioni precedenti; così fu per la mobilitazione che vide accorrere la gioventù italiana a Firenze in uno slancio generoso e appassionato di solidarietà, quando nel 1966 l’alluvione colpì questa città, simbolo non solo della civiltà italiana ma della stessa civiltà mondiale (ed è impressionante, ma fortemente rivelatore dei moduli politico-ideologici della ‘rivoluzione passiva’, che la proposta di ripetere quel gesto di solidarietà per aiutare a risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti a Napoli sia stata avanzata con enfasi demagogica dallo stesso Berlusconi, contestualmente con la decisione di inviare migliaia di soldati in quel territorio); così fu ancora per il grande ciclo dei movimenti giovanili che ebbe le sue tappe fondamentali nel biennio 1968-1969 e poi nel 1977, prima che il massiccio spostamento dei giovani verso un’alternativa di sistema venisse intercettato e quindi arrestato con la diffusione altrettanto massiccia (e scientificamente pianificata) della droga e dei disvalori del qualunquismo, del consumismo, dello yuppismo e del rampantismo da una società sempre più appiattita su un’immagine di edonismo consumistico e di futilità televisiva. Ma questa è ormai la cronaca degli anni ’80 e ’90, quando la questione giovanile cessa di essere una questione nodale della emancipazione e tende a contrarsi nella problematica del disagio, della devianza e dell’emarginazione.

E, siccome non credo, rileggendo queste note, di aver dato, al di là di qualche spunto, una risposta precisa ed esauriente al quesito che mi è stato posto (c’è ancora molto da scavare, molto su cui riflettere, molto da chiarire), concludo questa specie di ‘apologia critica’ del ’68, che forse rischia di assumere il significato dell’equivalente inglese ‘apology’, cioè il significato di scusa o giustificazione, trascrivendo come ‘explicit’ di questo abbozzo di risposta i versi, stupendi (e stupendi perché giusti), di un poeta, di un saggista e di un intellettuale che è stato un interlocutore appassionato e partecipe delle vicende politiche, culturali e ideologiche della ‘generazione del ’68’: Franco Fortini. “La storia è andata così, / la vita anche. / Mutare il ribrezzo in lucidità, / la speranza in certezza. / E in Impazienza.”

Eros Barone

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