Il primo bacio al tempo del Covid
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26 Novembre 2020
Mi chiamo Ginevra, ho quasi tredici anni e faccio la terza media.
Anche se è un periodo un po’ così, sono riuscita a convincere i miei genitori e sabato sera sono uscita. Sono andata in piazza della chiesa, sulla panchina, eravamo in sei… e c’era anche Luca. Lo vedo ogni giorno in classe, dalla terza elementare. Siamo sempre stati grandi amici, ancora di più da quando ci alleniamo anche insieme. Ma ad un certo punto qualche cosa è cambiato, ho iniziato a sentire delle cose diverse ogni volta che gli ero vicina, o che semplicemente lo pensavo.. e forse anche lui… bhe, sabato sera ci siamo visti in piazza. Io ero seduta sullo schienale della panchina e quando lui è arrivato si è seduto tra le mie gambe. Ho sentito un brivido. Entrambi continuavamo, con discrezione, a cercare quel contatto… quello che ti fa venire le farfalle nella pancia… e poi, quando è stata l’ora di andare a casa, ho salutato tutti, lui si è alzato, mi accompagnato per qualche passo e ci siamo baciati.
Parlo di un bacio vero! Uno di quelli con la lingua! Caspita, era la prima volta per me, e al di là dell’imbarazzo di non essere capace, di non essere brava…è stato così bello! Avrei voluto potesse non finire mai. Dentro quel bacio c’era tutto.. l’imbarazzo, l’eccitazione, il bene, la curiosità, l’attesa, il sentirsi grandi, l’aver trovato un modo per dimostrare quello che si prova, quel gesto che rende unico quel rapporto.
Ci siamo legati, forse per sempre, nel senso che ricorderò per sempre quel momento, quel bacio, quelle sensazioni sentite per la prima volta tutte insieme. Non sono stata mai così felice!
Lunedì mattina vado a scuola. Quando arrivo sono agitata, Luca non l’ho più visto da quel bacio. Chissà come sarà? Cosa dirà? Lo vedo arrivare. E’ in ritardo come al solito. Suona la campanella e dobbiamo entrare, non c’è tempo per dirsi nulla, ma lui mi guarda negli occhi, mi sorride, mi fa sentire che va tutto bene. Sono felice. Entriamo in classe.
Alla fine della prima ora inizio a non stare bene, ho mal di testa, mal di pancia…ma voglio resistere per poter uscire da scuola e avere un momento con Luca, anche solo per uno sguardo in mezzo agli altri. Ma non sto proprio bene. Alla terza ora chiamo mia mamma e torno a casa.
Non sto malissimo, ma i dolori ci sono. Martedì la mamma sente la pediatra, mi dicono che non sarà nulla, ma visto il periodo conviene fare un tampone. Non ci penso. Nel senso che non penso alle conseguenze di questa cosa. Resto a casa e aspetto di andare a fare il tampone. Luca mi scrive spesso, forse appena può. E’ carino, si preoccupa di sapere come mi sento…
Mercoledì pomeriggio vado a fare il tampone. Mentre torno a casa inizio a sentire una certa preoccupazione, ma soprattutto una certa vergogna. E se fossi positiva? Dove l’ho preso? A chi posso averlo attaccato? Luca??? Noooo non posso averlo attaccato a lui! Non posso aver fatto una cosa del genere… Dio, ti prego, fa che lui stia bene!
Luca mi scrive e io mi vergogno a rispondere, mi sento in colpa, anche se non so ancora nulla. Rispondo a monosillabi ai suoi messaggi, tanto che mi chiede se sono arrabbiata e alla fine quasi smette di scrivermi.
Venerdì arriva l’esito: POSITIVA.
Scoppio a piangere. Mia mamma cerca di consolarmi, mi dice che starò bene, di non preoccuparmi, di non avere paura. Ma nooo. Io non ho paura per me. Ma se l’avessi attaccato a Luca? La mia classe sarà messa in quarantena. Tutti sapranno che è colpa mia. Chissà cosa penseranno di me? Chissà cosa diranno i miei compagni, i professori? Chissà se Luca mi vorrà ancora? Dio che vergogna, vorrei poter sparire e che tutti potessero dimenticarsi di me. Mi vergogno, mi sento in colpa, vorrei poter cambiare le cose, ma non posso, non ci riesco, non so nemmeno dove l’ho preso questo maledetto virus!
Mi chiamo Francesca, di anni ne ho quasi trentasette, sono un’educatrice, non conosco Ginevra e Luca, non so nemmeno se esistono davvero, ma potrei essere la loro mamma. Mia figlia ha otto anni non è in terza media, ma in terza elementare, ma la questione non cambia.
Il problema rimane.
La domanda resta.
Io, donna, adulta, genitore, educatore, come posso accettare che per “mia figlia” il primo bacio possa trasformarsi in un incubo? In paura, vergogna, senso di colpa? Come posso accettare che su di lei, su Ginevra, ricada la colpa della trasmissione del contagio? Lei ha ha dato un bacio, un abbraccio. E lo ha fatto perché era la cosa che desiderava di più al mondo. Lo ha fatto perché ha seguito l’istinto della vita, della vitalità, perché Luca per lei, in quel momento rappresentava il suo tutto. Il suo essere tredicenne, il suo affacciarsi alla vita.
Voi, grandi, vi ricordate il vostro primo bacio?
Io sì. Goffo, timido, sicuramente imperfetto, a ripensarci quasi ridicolo (c’è stato un incontro di denti quasi doloroso!) ma allo stesso tempo così bello… con lo stomaco sotto sopra, che ancora ricordo esattamente dove mi trovavo, come ero vestita, la canzone che c’era di sottofondo.
Quello che sicuramente non ricordo è il senso di colpa, cosa che invece, in Ginevra resterà impresso. E allora la domanda è perché? Cosa stiamo facendo? Dove stiamo andando? Cosa stiamo facendo ai nostri figli?
Nove mesi fa, abbiamo deciso che loro, i nostri ragazzi, erano pericolosi, andavano tenuti a casa, zero contatti. Non potevano vedere amici, parenti, nonni, contatti azzerati perché loro, forti, sani erano gli “untori”, quelli che potevano portare il virus ovunque, uccidere le persone che tanto amavano. Li abbiamo obbligati a rinunciare a tutto ciò che li faceva sentire vivi: famiglia, amici, scuola, sport.
Ce li siamo dimenticati nelle loro stanze. Con il loro telefono, il loro pc, il loro mondo virtuale, parallelo, di cui noi, “grandi”, non ci siamo mai interessati perché ci spaventava. Abbiamo chiesto, preteso da loro che si fidassero della nostra decisione. Gli abbiamo chiesto di rispettare le nostre regole e loro lo hanno fatto.
Bene, e ora, a distanza di nove mesi? Incredibile, siamo nella stessa situazione. Perché ancora una volta ce la prendiamo con loro? Perché ancora una volta sono loro che vengono investiti della colpa del contagio? Perché non ce la prendiamo con quelli della mia età? Forse, perché quelli della mia età portano soldi, li guadagnano e li spendono. Forse perché quelli della mia età, se si arrabbiassero davvero, avrebbero la forza di scendere in piazza, per le strade e di protestare, manifestare. Loro invece, Luca e Ginevra, non portano soldi, nemmeno li guadagnano, e soprattutto in piazza non scenderebbero. No, perché ancora una volta, loro si fidano di noi, e se quello che noi gli diciamo è che sono colpevoli, loro ci credono.
Quando noi, parliamo con loro, noi “grandi”, gli diciamo che devono essere responsabili dei loro comportamenti, ma quell’essere responsabili nasconde la parola colpevoli. Quello che dovremmo fare è invece farli diventare responsabili di ciò che vuol dire fidarsi. Responsabilità, abilità nel rispondere. Fidarsi di chi?
Ecco, quello che vorrei dire ora, a Ginevra e Luca, è che dovrebbero imparare a chiedersi di chi, di cosa si fidano. E’ inconcepibile pensare che intere generazioni di ragazzi e bambini possano fidarsi di adulti che li crescono facendoli sentire in colpa, disegnandoli come causa prima del contagio, della pandemia. Sappiamo tutti che così non è, ma inspiegabilmente, continuiamo a fare pagare loro il prezzo più alto.
Io oggi vado a lavorare, loro a scuola, invece, non ci possono andare, ed è paradossale, perché io lavoro nella loro scuola!
Vorrei dire alle Ginevra e ai Luca “ragazzi, ogni volta che vi viene chiesto di fare qualche cosa che sentite stonare dentro di voi, per qualsiasi ragione, in qualsiasi modo, chiedete perché!”
Non limitatevi ad accettare la regola solo perché dettata da qualcuno di più grande (genitore, professore, educatore, allenatore..). Forse un tempo questo poteva anche funzionare, l’autorità dei grandi non poteva essere messa in discussione, ma oggi no. I grandi sono confusi, spaventati, non sanno quale sia la direzione giusta da prendere per loro, figuriamoci per voi. Quello che si può fare è cercare di crescere insieme, di trovare la strada facendo un passo alla volta, mettendo in discussione il passo precedente chiedendosi perché. E se se i “vostri” grandi non dovessero chiedersi perché? Fatelo voi per loro. Non limitatevi ad accettare, a rispettare. No, siate ribelli. Ora. Fate questo regalo anche a noi grandi. Siate ribelli. Mettete in discussione tutto, il pacchetto completo. Forse sarà doloroso. Per certi aspetti addirittura violento, ma oggi, come mai, estremamente necessario.
Ho paura che noi “grandi” non abbiamo quella forza di ribaltare tutto. Ma voi sì. E noi saremo lì a sostenervi, perché, nonostante i nostri grandi errori, noi soli non vi lasciamo.
Spesso, sento dire che non bisogna avere paura. Quante volte diciamo ai nostri figli di non avere paura? E invece no. La paura è un istinto vitale. Non è un emozione che bisogna imparare a non provare. Tutto il contrario. La paura va ascoltata, sentita, riconosciuta. La paura, se non ci fa paura, ci permette di restare vivi. Sì, perché se conosciuta diventa strategia: in una situazione di pericolo ci permette di fare la scelta che ci salverà la vita, combattere o fuggire. E non lo dico a livello metaforico questo è ciò che accade a livello neurofisiologico.
I bambini, i ragazzi vanno educati anche alla paura, il che non vuol dire fargli paura, ma metterli nelle condizioni di poterla sperimentare, di poterla affrontare per poter scoprire così il coraggio, che non è il “non aver paura”, ma è il saperla riconoscere, accettare, affrontare e trasformare. Certo, fa paura affrontare la paura, ma noi, “grandi” siamo l’esempio lampante che ce la si può fare, perché anche noi siamo stati ragazzini, anche noi abbiamo avuto quelle paure, o paure molto simili e oggi siamo qui, ce l’abbiamo fatta, ne abbiamo certamente altre, ma abbiamo l’esempio dei nostri “grandi” che a loro volta ce l’hanno fatta e così via.
Oggi, forse più di ieri, penso sia fondamentale il confronto tra “piccoli” e “grandi” un contatto con-tatto, delicatezza, amore e rispetto gli uni verso gli altri. Un contatto che si innesca con lo sguardo, oggi più che mai fondamentale per ogni forma di comunicazione, visto che tutto il resto del volto è nascosto dietro una maschera. Uno sguardo che ci permette di vedere il nostro riflesso nell’occhio dell’altro. Un riflesso completo, luci e ombre, grandezza e abisso, un tutto che può essere tale solo se condiviso con qualcuno, con un altro essere umano che ci permette di vedere il nostro riflesso nei suoi occhi.
Noi “grandi” abbiamo il compito imprescindibile di continuare a ricordare ai nostri piccoli il potere della relazione, dell’essere uniti, del contatto che può avvenire in molte forme differenti, dal bacio e abbraccio iniziale di questo scritto, allo sguardo, al pensiero. Ma quello che è davvero importante è educarli all’incontro con l’altro, alla meraviglia che c’è nello scoprire di non essere soli, allo scoprire le bellezze di un altro essere umano, educarli alla magia dell’amore, in ogni sua declinazione, in ogni sua forma.
Educarli al coraggio di emozionarsi, di avere paura, di innamorarsi, di essere felici.
Francesca Berrini
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