«Quello che non potrò mai perdonare ai nazisti è di averci fatto diventare come loro»
30 Luglio 2014
Egregio direttore,
nel suo intervento intitolato “Quando l’antisemitismo si nasconde dietro l’antisionismo” (cfr. lettera n. 145) il signor Demetrio Shlomo Yisrael Serraglia sfodera tutta la consueta panoplia di argomentazioni per giustificare e financo esaltare la politica bellicista e razzista dello Stato israeliano e, segnatamente, la sanguinosa aggressione scatenata da esso Stato contro la popolazione palestinese rinchiusa nel ‘bandustan’ denominato Striscia di Gaza. Consentimi, allora, di esprimere con la massima schiettezza il più fermo dissenso nei confronti dell’equazione tra l’antisionismo e l’antisemitismo, che costituisce il pernio delle argomentazioni svolte dal suddetto signore. Con la presente lettera mi propongo perciò di confutare tale equazione, spiegando ai lettori di questo giornale i motivi storici, politici, ideali e morali per cui la ritengo infondata, fuorviante e insostenibile. La premessa storica fondamentale da cui occorre partire è che il sionismo come fenomeno politico e ideologico, indipendentemente dall’ispirazione messianica ed emancipatrice che animò le prime generazioni di militanti, si identificò con un movimento di chiaro stampo colonialistico su base razziale e religiosa, che puntava a modificare radicalmente la composizione demografica della Palestina in nome della colonizzazione di quel territorio da parte di nuclei etnici ebraici provenienti da tutto il mondo. Sennonché non si può sottacere il fatto che, essendo gli elementi storici (natura del sionismo politico) e politici (strategia di colonizzazione integrale del territorio palestinese) tra loro strettamente connessi, i secondi seguono purtroppo la logica complessiva dei primi. Questa connessione dovrebbe indurre anche l’osservatore più moderato ed equanime ad interrogarsi sulla natura complessiva del sionismo. Al contrario, vengono accusati di antisemitismo non solo i critici storici del sionismo come fenomeno complessivo, ma anche i critici della politica di Israele a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, allorché questo Stato, dopo gli accordi di Oslo del 1993, tese a moltiplicare gli insediamenti di coloni nei territori della cosiddetta Cisgiordania. Con questa sciagurata politica, che la ‘Road Map’, lungi dal modificare, finì sostanzialmente con l’avallare, Israele mostrava, per un verso, di non accettare la coesistenza con uno Stato palestinese e, per un altro verso, di voler perseguire la strategia della colonizzazione integrale dei territori, confinando l’autonomia palestinese all’interno di ‘bandustan’ privi di una reale sovranità politica ed economica. Riconosco che vi sono casi in cui, effettivamente, sul piano storico e politico, ragioni e torti sono talmente mescolati che non è facile trovare un criterio oggettivo e preciso di giudizio per definire secondo un ordine di precedenza le ragioni ed i torti: basti pensare al conflitto greco-turco a Cipro o a quello fra gli indiani e i pakistani in Kashmir. Ma nel caso del conflitto israelo-palestinese il dilemma dell’ambivalenza non si pone per nulla, poiché in questo caso i palestinesi hanno completamente ragione e gli israeliani hanno completamente torto. Da anni è possibile, invece, constatare che il pubblico televisivo italiano viene abituato a considerare l’uccisione di qualche decina di coloni sionisti nei territori illegalmente occupati da Israele dopo il 1967 un evento più importante dello sterminio, destinato a restare anonimo e non particolarmente significativo, di migliaia di palestinesi. Ciò nondimeno, quando penso al contributo che ha dato al patrimonio filosofico, scientifico e letterario dell’umanità, io non nascondo di provare una grande ammirazione verso la cultura ebraica: e mi limito a citare, fra i tanti, i nomi di Spinoza, di Einstein e di Kafka. Rispetto, dunque, l’identità ebraica, ma non concedo ad essa alcuna immunità giuridica e politica. Di conseguenza, respingo nel modo più energico e più convinto l’idea secondo cui gli ebrei, a causa di quanto hanno dovuto sopportare sotto Hitler ed i suoi alleati, non possono essere né giudicati né puniti. Ritengo, al contrario, che proprio questo sia oggi il vero antisemitismo, anche se di ciò non vi è alcuna consapevolezza. Quella consapevolezza che indusse, invece, un testimone della ‘Shoà’ come Primo Levi a prendere le distanze dalla politica delle rappresaglie e della ‘guerra totale’, pronunciando le seguenti parole: «Quello che non potrò mai per-do-nare ai nazi-sti è di averci fatto diven-tare come loro». L’equazione fra l’antisionismo e l’antisemitismo (equazione per sua natura infondata storicamente e offensiva filosoficamente, se si pensa al gran numero di ebrei antisionisti che hanno popolato la storia del Novecento) sta oggi scivolando verso l’equazione fra l’antisemitismo e la semplice critica ad Israele. Siamo così arrivati al punto che non si capisce neppure più quali sarebbero i limiti della critica legittima ad Israele, dal momento che persino l’appoggio a coloro che si battono per liberare i territori occupati nel 1967 viene ormai qualificato come espressione di antisemitismo. Ecco perché oggi occorre avere il coraggio di essere impopolari, dichiarando a tutte lettere che la politica israeliana e, alle sue spalle, quella statunitense, con il sostegno permanente del vassallo britannico e l’afasia complice della quasi totalità dei governanti europei, fra i quali figura il valvassino italiano, divenuto uno dei maggiori fornitori dei micidiali sistemi d’arma con cui l’esercito israeliano semina morte e distruzione sulla popolazione civile, sul territorio e sull’ambiente, costituiscono una fonte permanente di guerra e un rischio per la pace mondiale: non il solo, certo, ma uno dei principali accanto alle formazioni fondamentaliste che, inventandosi un “dovere religioso”, seminano terrore e odio, svolgendo un ruolo del tutto funzionale alla politica statunitense e israeliana.
Se considero poi che, seguendo una simile logica, viene di fatto squalificato e demonizzato a posteriori tutto l’ebraismo non sionista, ma socialista, comunista, marxista, rivoluzionario e universalistico del Novecento, da Bloch a Lukács, da Benjamin allo stesso Trotsky, provo un vero sdegno, perché una parte importante della storia, in cui io, assieme a tanti altri compagni, mi riconosco, viene così cancellata. In conclusione, io penso che il filosionismo isterico della cultura italiana, da Adriano Sofri a Giuliano Ferrara e Furio Colombo, sia, a parte poche eccezioni come Gianni Vattimo e Claudio Magris, solo una manifestazione di cultura neoimperialista e neocolonialista. Gli intellettuali, come sempre, vanno in soccorso del vincitore e si schierano con chi attualmente è più forte, più armato, più ricco e più potente. Dal mio punto di vista, è questa una ragione più che sufficiente per fare la scelta opposta, che è poi quella, per dirla con Brecht, di stare dalla parte del torto, essendo gli altri posti già tutti occupati. Ed è anche una ragione per dedicare questa lettera alla memoria di un poeta, di uno scrittore politico e di un ebreo antisionista, quale fu Franco Fortini, che non ebbe mai alcun dubbio su quale fosse, anche in questo caso, la parte con cui schierarsi.
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