Una ‘fiction’ banale e deludente su Albert Einstein
29 Ottobre 2008
Egregio direttore,
Galilei e Einstein, oltre a costituire un patrimonio inestimabile dell’umanità, hanno nel nostro paese un tratto comune: entrambi sono stati rappresentati sul piano cinematografico da Liliana Cavani. “Galileo” è un film magistrale, che non a caso risale al 1968. Girato su commissione della Rai, che non lo ha mai trasmesso in prima serata, descrive i caratteri essenziali del periodo storico in cui visse e operò il grande scienziato toscano: la Riforma, la Controriforma, Giordano Bruno (cui un altro valente regista, Giuliano Montaldo, ha dedicato un film eccellente) e, naturalmente, gli aspetti scientifici e filosofici dell’opera galileiana. Memore di queste pellicole che hanno fatto onore al cinema italiano (pellicole fra le quali merita di essere ricordato anche il film della Cavani su Francesco di Assisi), ho dedicato le serate di lunedì e di martedì scorsi alla visione della ‘fiction’ su Einstein.
Speravo di assistere a qualcosa, se non di memorabile, di valido, ma ho invece assistito ai due tempi di una ‘fiction’ banale, sciatta e lacunosa. Vediamo alcune delle manchevolezze che confermano questo giudizio negativo. Einstein trascorse la giovinezza a Milano dove il padre aveva una fabbrica di apparati elettrici, che fallì (nella ‘fiction’ non vi è traccia di questa vicenda); assieme al suo amico Michele Besso fondò un gruppo di discussione chiamato “Accademia Olimpia”, dove Einstein discuteva con i suoi amici di scienza e di filosofia (anche su questo si sorvola); Einstein non fu l’unico scienziato a lasciare la Germania, ma vi fu una migrazione di tale portata che la concentrazione di scienziati più grande del mondo (quella tedesca) si ridusse quasi a zero; Einstein non fu un velleitario pacifista che partecipava a manifestazioni con lo stile di un ‘figlio dei fiori’, ma creò una grande organizzazione pacifista mondiale che esiste ancor oggi; Einstein non si recò mai a visionare la bomba atomica Fat Man per domandare poi, non si sa bene a chi, quale fosse lo stato di avanzamento dei lavori; Einstein, quando tale Stato si costituì, ricevette la proposta di assumere la carica di presidente di Israele, ma rifiutò perché egli si opponeva al sionismo; Einstein si trovò di fronte alla proposta di fare la spia per il governo degli Usa, ma nella ‘fiction’ sembra che la proposta riguardi soltanto lui, mentre il maccarthismo, che non colpiva solo gli immigrati, non è neppure citato. Inoltre, nel film della Cavani non vi è alcuna immagine dell’eccidio nucleare di Hiroshima e Nagasaki con le decine di migliaia di morti che esso provocò.
Infine, i riferimenti alla fisica di Einstein sono puerili e, in alcuni casi, errati: basti pensare a quelli riguardanti la teoria della relatività (termine scorretto, poiché l’articolo del 1905 era intitolato “Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento”), che si riassumono nel luogo comune della ‘vulgata’, con cui si fa credere esattamente il contrario di ciò che aveva trovato Einstein, il quale giunse alla scoperta (non del relativo ma) dell’assoluto. E rispetto a Max Planck, nei confronti del quale Einstein contrasse un debito di riconoscenza enorme, perché quel grande scienziato era il direttore degli “Annali di fisica”, ossia della rivista che ebbe il coraggio di pubblicare lo storico articolo di Einstein, il meno che si possa dire è che, senza Planck, Einstein sarebbe quasi certamente rimasto a controllare il funzionamento delle pentole a pressione nella ditta di Berna dove aveva trovato lavoro dopo la laurea.
In conclusione, il lavoro cinematografico di Liliana Cavani su Albert Einstein è da considerare un’occasione persa, una conferma della crisi di capacità, di conoscenze e di idee della ‘fiction’ italiana, un sottoprodotto che mostra, più che la vita e l’opera di Einstein, la decadenza della regista che lo ha realizzato e della cultura che lo ha ispirato.



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