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25 aprile, diario minimo

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24 Aprile 2009

Caro direttore,
ti invio un piccolo contributo sul 25 aprile.
Un augurio di buon lavoro e ogni cordialità.

Sul 25 aprile vi sono due aspetti che si impongono alla nostra riflessione: il primo è il valore storico-politico che esso racchiude, l’altro è il punto di osservazione – l’Italia di oggi, cioè – dal quale noi ripensiamo quegli eventi.
Se si accetta la tesi di alcuni storici, di un’Italia sorta dal tradimento quale presupposto della nascita della moderna Repubblica (l’8 settembre, cioè, che si riverbera su una nazione allo sbando), si circoscrive il ruolo della lotta partigiana a uno dei due schieramenti della guerra civile che infiammò il Paese. Di qui anche una interpretazione, più volte sottolineata e variamente riaffermata, che ebbe il suo fulcro nel concetto di Resistenza tradita.
Viceversa, in una prospettiva meramente letterale, di Resistenza come resistenza al nazifascismo, quel movimento, che fu civile e morale prim’ancora che militare e politico, ci apparirà in una luce completamente differente: capace addirittura di sanare diversità, disomogeneità e ferite, e soprattutto evento attraverso il quale poter rileggere la nostra storia più recente: dal Risorgimento alla Grande Guerra, fino alle tensioni che, solo apparentemente sopite nel primo dopoguerra e negli anni del boom, porteranno agli anni di piombo e – grazie a fattori esterni, come la caduta del Muro di Berlino – al crollo delle ideologie e di un intero sistema.
Ha ancora un senso festeggiare il 25 aprile? Questa data rimane un punto fermo della nostra identità, ma l’antifascismo, da cui fu generato come conquista della democrazia e di più ampie libertà, sembra ormai un sentimento annacquato, se non addirittura in alcuni casi, apertamente avversato. Le risorgenti polemiche sulla partecipazione o meno del presidente del Consiglio alle manifestazioni di piazza, che hanno infiammato il dibattito politico nei giorni scorsi, i tentativi di alcuni di voler equiparare gli opposti schieramenti che si fecero interpreti della storia di quegli anni, regolarmente rimandano se non a un sottofondo ideologico mai realmente sradicato, alla strumentalizzazione politica di un evento, come se il sangue che fu versato in quei mesi e la libertà che trovò finalmente espressione nella Carta costituzionale non fossero patrimonio di tutti, ma solo di alcuni.
In sintesi il fatto che noi tutti, riprendendo una celebre dichiarazione crociata, non possiamo non dirci antifascisti, indipendentemente dalle nostre idee e dalle posizioni politiche professate, non appare così scontato come invece dovrebbe essere.
Si guarda al futuro, conoscendo il passato, e forse è per questo che il nostro Paese fatica a vivere il presente. Non mi riferisco alla crisi economica o a contingenze, se pur gravi, in cui oggi ci troviamo immersi, ma al ritratto di un’Italia che fatica a delineare una propria identità, all’opposto di quell’Italia che – fra il 1943 e il ’45 – cominciò a rifondare e a sentir germogliare una nuova coscienza politica.
È ancora il 25 aprile una festa che unisce e che può unire? Oggi in realtà si divarica una forbice fra l’indifferenza di alcuni e la possibilità di ripensare alla guerra di liberazione come un processo storico ineludibile per la coscienza civile della nazione, fuori dalle logiche antagonistiche che l’hanno voluta santificare o denigrare.
Teoricamente ci troviamo in una situazione di privilegio: gli ideali antifascisti sono proclamati generalmente dalla quasi interezza dell’emiciclo parlamentare. I partiti presenti si professano liberali, democratici, patriottici. «Forse non c’è mai stata, nella storia dell’Italia unita» – notava Emilio Gentile (Sole-24 ore, 19 apr. 2009) – «una così vasta adesione della coscienza politica agli ideali di patria e libertà, in nome dei quali fu combattuta la Resistenza e fu fondata la Repubblica italiana». Consideriamo, poi, che i vecchi partiti, che sorsero da quelle esperienze, non ci sono più: hanno subito trasformazioni, o altri se ne sono formati, nella diversa prospettiva assunta dal Paese, e così le voci che si levano per celebrare il 25 aprile – lontane ormai dalle tentazioni monopolistiche o viceversa dissenzienti – definiscono, dalla distanza, quel senso di un’identità critica e difficile da definire.
In questo senso il 25 aprile non si riduce a una ricorrenza da celebrare, buona tutt’al più per far prendere coscienza ai più giovani di ciò che accadde e ridurre la Resistenza all’unica possibile matrice dell’identità democratica. Esso deve essere ripensato come abbrivio di una democrazia in cammino. Fino a quando non saremo in grado di costruire una memoria condivisa, questa data rischia di rimanere un monumento, un palazzo disabitato, visitato dalle cerimonie e dalle corone di alloro. Il 25 aprile, viceversa, è la pietra miliare nel cammino di un Paese in trasformazione, è la pietra angolare di una casa fondata con la Carta costituzionale e che chiamiamo democrazia.

sen. Paolo Rossi

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