I piccoli esportano il bello e ben fatto italiano

Una ricerca del Centro Studi di Confindustria evidenzia che su un totale di 13.130 imprese che esportano il made in Italy quasi la metà (6.013) hanno da 1 a 9 dipendenti e operano nei settori abbigliamento, alimentare, arredamento e calzaturiero

Quando Manuela Marianera (foto), economista del Centro studi di Confindustria, mostra le slide della ricerca sull‘export del made in Italy, molti imprenditori presenti alla Roda srl di Gavirate per partecipare all’assemblea dei gruppi merceologici di Univa della filiera del tessile e dei settori alimentare e bevande, annuiscono con la testa, confermando di riconoscersi nell’analisi della ricercatrice. La ragione di tale identificazione sta probabilmente nel profilo delle aziende che, secondo la ricerca, esportano il “Bello e ben fatto italiano” (BBF). Si tratta per lo più di micro e piccole imprese (da 1 a 9 addetti), ben 6.013 su un totale di 13.130, tutte operanti nei settori classici del manifatturiero italiano: abbigliamento (2.096), alimentare (1.730), arredamento (1.523) e calzature (664). Invece sono solo 184 le grandi aziende (da 250 addetti e oltre) che esportano BBF.
Internazionalizzare è necessario se si vuole rimanere in vita e competitivi sul mercato. Questo gli imprenditori lo hanno capito da tempo, perché quella parola non manca mai in qualsiasi incontro in cui si parli di crisi e di impresa. Il problema principale per una piccola impresa è però capire come fare a internazionalizzare per conquistare nuovi mercati, soprattutto quelli fuori dall’area euro che sono i più interessanti per fare business, ma anche i più difficili. «Lo scopo di questo lavoro – spiega Marianera – è dare un taglio operativo, cioè piegare come si va all’estero».
La ricerca intitolata “Esportare la dolce vita” individua due tipi di veicoli per sbarcare sui nuovi mercati: quelli operativi (fiere e grande distribuzione) e quelli di sistema (turismo, cinema , istruzione, emigrazione). «Avere la consapevolezza di questi temi – continua l’economista – aiuta a sapere dove andare e a prevedere la domanda del made in Italy nei mercati emergenti».
In paesi come Cina, la Russia ed Emirati Arabi Uniti le importazioni nel 2017 arriveranno a toccare i 136 miliardi di euro (44 in più rispetto al 2011), diventa perciò fondamentale stabilire alleanze solide con i distributori presenti in quelle aree con investimenti della durata di almeno 3 anni, prima di avere un ritorno. «Gli importatori cinesi – racconta Marianera – dicono che gli imprenditori italiani non hanno la pazienza di aspettare e che si lamentano del prezzo basso stabilito per l’ingresso sul mercato dei loro prodotti, soprattutto quando si parla di marchi sconosciuti. Gli italiani sono molto apprezzati dai cinesi per la loro flessibilità perché riescono a fare piccole modifiche ai prodotti, personalizzandoli. Sono invece un po’ meno apprezzati sulle tempistiche di consegna».
Il made in Italy piace ai cinesi, ma anche ai mercati più dinamici come quello vietnamita, turco e indonesiano. Nel 2017 ci saranno nel mondo oltre 192 milioni di nuovi ricchi in più, provenienti dalle maggiori città cinesi, indiane e brasiliane, mentre una nuova classe media benestante si affermerà in Russia, Turchia e Polonia. «È questa direzione che le nostre aziende devono seguire – conclude Marianera – e gli italiani all’estero, che sono tanti, possono essere i migliori ambasciatori dei nostri prodotti».

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 05 Aprile 2013
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