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Attualità del pensiero di Gramsci nel 75° anniversario della sua morte

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31 Marzo 2012

Gentile Direttore,
Antonio Gramsci morì il 27 aprile 1937 in una clinica di Formia dove era stato trasferito dal carcere a causa delle sue gravissime condizioni di salute. Il regime fascista, con la sua morte, portava a termine solo in parte l’infame proposito di “impedire a quel cervello di funzionare per venti anni”, come aveva detto il pubblico ministero Michele Isgrò al processo. Se il fascismo, condannando Gramsci a venti anni quattro mesi e cinque giorni di reclusione, era riuscito a togliergli la libertà di parola e di movimento, rinchiudendolo in vari carceri, non era riuscito però, come pensava il pubblico ministero ad impedire al cervello di Gramsci di pensare. Sorvegliato speciale, in quanto dirigente comunista, venne sistemato intenzionalmente, per impedirgli di riposare, in una cella rumorosa accanto al corpo di guardia. Gramsci nell’isolamento del carcere era sempre più assillato da domande alle quali non trovava risposte: sui rapporti con i suoi cari, con il partito e con l’Internazionale comunista. Cercò, pur nella difficoltà delle drammatiche condizioni carcerarie, cui era sottoposto, di non venir meno all’impegno di studio che si era proposto e comincio così ad elaborare tutta una serie di riflessioni, che saranno contenute poi nei cosiddetti Quaderni del carcere. Le sue opere oggi sono tradotte in tutte le lingue più diffuse e studiate in varie parti del mondo, con sempre rinnovato interesse. Sorge a questo punto un quesito: di che utilità può essere per un giovane del Terzo Millennio ricordare e riflettere sul suo pensiero, oggi nel settantacinquesimo anniversario della sua scomparsa, in un mondo globalizzato, multietnico e multiculturale, percorso da divergenti forme di comunicazioni? Secondo quanto ha scritto, il professor Massimiliano Biscuso, nel Giornale di filosofia, “commemorare Antonio Gramsci significa inevitabilmente misurarsi con la questione della sua ‘attualità’. Ma valutare l’attualità di un pensatore è questione niente affatto banale: non si tratta, infatti, di rivendicare a Gramsci la capacità di ‘anticipare’ o ‘precorrere’ il proprio tempo grazie alla sua perspicacia, capacità tanto care a un vecchio, ma mai veramente morto, cattivo storicismo. Si tratta, invece, di comprendere l’utilizzabilità di un metodo di ricerca e la permanenza dell’oggetto di studio: quale capacità di lettura del mondo acquisiamo leggendo Gramsci? e in quale misura il nostro ‘oggi’ è ancora l’”oggi” che fu il suo? In fondo la questione dell’attualità della propria ricerca è presente a Gramsci fin dalla gestazione dei Quaderni del carcere. In una notissima lettera del 13 marzo 1927, il pensatore sardo, prigioniero nelle carceri fasciste e consapevole che tale condizione non sarebbe mutata per molto tempo, comunica a Tania l’intenzione di iniziare una serie di ricerche che lo occupino ‘intensamente e sistematicamente’, assorbendo e centralizzando la sua ‘vita interiore’. Si tratta, precisa Gramsci, di ‘far qualcosa für ewig,’ di lavorare ‘da un punto di vista disinteressato.’ Scrivere ‘für ewig’ (per sempre, per l’eternità) significa non esaurire la funzione della scrittura nella immediata contingenza della lotta politica, ma affrontare con tutta l’ampiezza concessa dalle condizioni della vita carceraria – certo non molta – e con la radicalità necessaria gli argomenti di maggior interesse per intendere il presente. Ho voluto riportare questo significativo e non breve passo del 2007, del professor Biscuso, perché restituisce a pieno e con rigore il senso dell’attualità di Gramsci in una fase politica come questa nella quale si stanno riproponendo nel dibattito vecchie polemiche e distorte interpretazioni su non pochi atti e/o tesi del pensatore sardo.
Gli studiosi gramsciani di vaglia più avvertiti sono dell’avviso che la grandezza di Gramsci consiste essenzialmente nell’aver prodotto alcune cruciali categorie concettuali (blocco storico, nazionalpopolare, egemonia, crisi, moderno principe, guerra di posizione ecc.) che possono aiutare ad analizzare, anche con approcci nuovi, non pochi eventi storici del nostro tempo, financo le drammatiche trasformazioni politiche, sociali ed economiche che hanno investito in questi ultimi tempi le società arabe. Del resto – dice Daniel Atzori, in “Gramsci e le rivolte arabe” – “l’interesse degli intellettuali arabi e musulmani per il pensiero di Antonio Gramsci non è un fenomeno nuovo”. Da tempo gli studiosi si accostano ai “Quaderni” alla ricerca di lumi e più volte Gramsci ha fornito loro l’approccio metodologico corretto ed alcune categorie per analizzare i mutamenti politici, sociali in atto nei loro paesi. L’interesse si è rinnovato e ha ripreso vigore anche da noi, in questa epoca di crisi e di “passioni tristi,” così priva di leader autorevoli, dalla tempra morale forte. Nel nostro Paese, dove si è smarrito il senso dello Stato ed ogni principio etico, dove la corruzione e l’evasione fiscale hanno toccato livelli impensabili e la gente, nell’incertezza del futuro, cerca solo di abbarbicarsi al suo “particulare”, il “ritorno a Gramsci” si spiega con il drammatico bisogno di rispondere al vuoto ideale, etico e culturale con un pensiero forte cui rifarsi per rifondare il senso della politica della moralità e della cultura, condizioni queste pregiudiziali per la formazione di una cittadinanza democratica vigile, e tollerante. Vorrei ricordare, nel settantacinquesimo anniversario della sua morte, la citazione che segue, tratta da “Città Futura,” 1917: “Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”. Gramsci consapevole che “si è responsabili di ciò che si fa, ma anche di ciò che non si fa,” come direbbe Voltaire, denunciava con questa invettiva il vecchio vizio, purtroppo tanto attuale, quello cioè di stare alla finestra, chiamarsi sempre fuori, non assumersi le responsabilità pubbliche. Credo che il suo monito sia più che attuale, proprio oggi nel nostro Paese dove il gradimento dei cittadini verso i partiti, secondo l’ultimo rilevamento operato da Ilvo Diamanti, è al 4%, e un numero sempre maggiore di cittadini, soprattutto giovani, guarda con diffidenza alla politica e ai partiti e a ogni tornata elettorale aumenta la percentuale di chi non si reca a votare.
Il distacco del Paese reale dai partititi tradizionali è destinato a crescere sempre di più se i partiti non troveranno la forza di rigenerarsi e rinnovarsi. Pur tuttavia penso che, nella ricorrenza della strage delle Fosse Ardeatine e nell’approssimarsi del 25 aprile, anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, tutti debbano ritrovare le ragioni per impegnarsi a far rinascere la buona politica, quella rinnovata, democratica, partecipativa e vicina agli interessi dei cittadini. “Occupatevi della politica” – scriveva un ragazzo condannato a morte dal Tribunale fascista nella sua ultima lettera ai genitori – “altrimenti sarà la politica a occuparsi dì voi”. Aveva imparato la lezione di Gramsci.
Romolo Vitelli

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