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Il giuramento del 1931: imprecisioni e deformazioni

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15 Novembre 2016

Egregio direttore,

leggo soltanto ora la lettera dell’avv. Mario Speroni sulla ‘vexata quaestio’ del giuramento di fedeltà al regime fascista, imposto nel 1931 dal governo Mussolini ai docenti universitari. Conoscendo ed apprezzando la certosina precisione filologica dell’autore dell’intervento correttorio, il quale cita come fonte fondamentale l’importante studio di Helmut Goetz su “Il giuramento rifiutato”, non posso che accogliere la precisazione riguardante il numero esatto dei docenti che, su un corpo accademico che allora ne contava 1225, compirono quel gesto di opposizione alla dittatura fascista: numero che è di diciotto e non di dodici, come invece sta inciso nella lapide commemorativa dell’Università dell’Insubria.

Qualche difficoltà invece, nel prendere atto della precisazione offerta dall’esimio avvocato, vi è stata da parte di chi, anziché farsi parte diligente nel recepirla, sembra averla del tutto ignorata nella stesura del testo della lapide. A questo punto, può essere istruttivo domandarsi le ragioni di questa mancata rettifica, che a me paiono essere le seguenti. In primo luogo, la presenza imbarazzante di Agostino Gemelli, frate francescano e rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, fervido sostenitore e, dopo la Conciliazione del 1929, tenace concorrente del regime mussoliniano da posizioni cattoliche integraliste, in particolare sul terreno delle politiche scolastiche e giovanili: presenza che, è inutile negarlo, getta un’ombra sulla narrazione edificante, di cui il libro di Giuseppe Boatti, “Preferirei di no”, è invece un esempio paradigmatico, proposta, da un’angolazione azionista, intorno al significato, tutt’altro che omogeneo e concorde, che assunse quel gesto nelle intenzioni e nelle interpretazioni di coloro che, ‘uti singuli’, rifiutarono di prestare il giuramento richiesto dal governo fascista.

In realtà, le motivazioni soggettive addotte dai protagonisti di quel rifiuto non furono politiche (o lo furono soltanto indirettamente ed oggettivamente), ma o etiche o morali o religiose. E qui ha probabilmente ragione il filosofo Augusto del Noce, il quale, riferendosi all’egemonia intellettuale e morale da esso esercitata tra gli intellettuali italiani, ha affermato che il fascismo è stato “un errore della cultura” (quindi l’esito necessario di un corposo retroterra storico-culturale) e non “un errore nella cultura” (interpretazione pacificante e ‘problemless’ proposta da Norberto Bobbio e dai suoi seguaci). E non parliamo, per carità di patria, delle motivazioni molto più concrete, legate cioè alla consistenza del trattamento pensionistico, che non furono estranee ai tempi e ai modi della decisione assunta, per fare un altro esempio, dal filosofo Piero Martinetti: si vedano, a questo proposito, le pur reticenti annotazioni svolte da Pier Giorgio Zunino, curatore del volume che raccoglie l’epistolario martinettiano, “Lettere (1919-1942)”.

Insomma, l’insegnamento che si ricava da questo episodio di ignoranza più o meno volontaria è che la storia è complessa e la sua celebrazione nasconde insidie non minori della sua ricostruzione. Infine, se mi è lecito, aggiungerei ancora una postilla di carattere stilistico per stigmatizzare la goffaggine del francesismo che storpia l’ultimo capoverso del testo dettato per la lapide insubrica, un vero ircocervo linguistico: «In occasione del nostro [sic!] congresso martinettiano si ricorda questa loro preclara lezione perché, á la Cattaneo, [sic!] “la civiltà è milizia”».

Eros Barone

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