La Napoli di Malaparte tra realtà, metafora e profezia
21 Luglio 2011
Egregio direttore,
Non vi è dubbio che, tra le rappresentazioni letterarie del paesaggio, della storia e della società napoletani del ’900, quella fornita dalla “Pelle”, romanzo di Curzio Ma-laparte (1949), sia una delle più sconvolgenti. Più che un romanzo storico “La pelle” è un esempio di storiografia elaborata sul piano retorico e narrativo secondo quel mo-dello concepito e praticato dagli antichi, di cui lo storico e, insieme, l’artista Tucidide ha rappresentato, con la sua descrizione della peste ateniese, il protòtipo classico.
Il romanzo, pur descrivendo la Napoli tumultuosa, agitata e convulsa della Libera-zione, contiene una serie di spunti e di situazioni che, per la loro forza simbolica e quasi profetica, ne fanno una metafora estensibile alla Napoli e all’Italia di oggi, e forse all’intera Europa. Nel primo capitolo, intitolato “La peste”, Malaparte descrive, in significativa assonanza con il romanzo di Camus apparso due anni prima e recante proprio questo titolo, il male morale che ha contaminato l’Europa dopo la Liberazio-ne: prostituzione, corruzione, delazione, abiezione sono le manifestazioni sintomati-che di questo male. Un esempio è offerto nel capitolo intitolato “La vergine di Napo-li”: Malaparte, questa volta in compagnia di un giovane tenente americano, si reca in un ‘basso’ napoletano, dove un miserabile, per un dollaro a persona, mostra ai soldati americani una ragazza vergine, invitando i clienti a verificarne la condizione fisica. In un altro capitolo, intitolato “Le parrucche”, Curzio e Jimmy assistono al commercio, altrettanto ignobile, di grotteschi ciuffi di peli biondi, che vengono venduti ai negri che prediligono il vello pubico biondo. Lo spettacolo dell’abiezione è tratteggiato da Malaparte con toni che oscillano fra il realismo dantesco e la visionarietà estetizzante.
In un altro episodio particolarmente toccante Malaparte si prodiga per alleviare le sofferenze di un soldato americano dilaniato negli intestini dallo scoppio di una mina: “Mangerei la terra, – così Curzio esprime il suo senso di fraternità cosmica , masti-cherei i sassi, ingoierei lo sterco, tradirei mia madre, pur di aiutare un uomo, o un a-nimale, a non soffrire”. Nel settimo capitolo, intitolato “Il pranzo del generale Cork”, Malaparte tocca il diàpason dell’orrido: a un banchetto elegante di ufficiali alleati e signore americane viene servita la Sirena, pesce dell’acquario di Napoli che ha l’aspetto di una bambina bollita; i commensali, inorriditi, esigono ingenuamente che il pesce con le fattezze di una bimba sia seppellito come un essere umano. Nel capito-lo “La pioggia di fuoco” l’autore offre invece una descrizione apocalittica dell’eruzione del Vesuvio nel 1944. Il decimo capitolo, “La bandiera”, narra l’ingresso degli alleati a Roma, funestato da un terribile episodio che assume, a di-stanza di oltre sessant’anni dalla pubblicazione del romanzo, un significato sinistra-mente profetico per la cruda luce che proietta sullo stato attuale di un paese che, co-me l’Italia di oggi, è stretto nella morsa, da un lato, della secessione settentrionale e, dall’altro, della disgregazione meridionale. Un disgraziato finisce sotto le ruote di un carro armato e si riduce ad un’informe poltiglia, sottile come una sorta di grottesca bandiera: “quella bandiera di pelle umana era la nostra bandiera, la vera bandiera di noi tutti, vincitori e vinti, la sola bandiera degna di sventolare, quella sera, sulla torre del Campidoglio”. L’ultimo capitolo, “Il Dio morto”, descrive l’ascesa di Malaparte sino alla cima del Vesuvio, in compagnia di Jimmy, il tenente americano. Il vulcano spento, il Vesuvio, diviene l’immagine di un mondo morto: l’Europa è ormai “un mucchio di spazzatura”, ma Curzio rifiuta di seguire l’amico in America, nella terra dei vincitori. In fondo, egli conclude, “è una vergogna vincere la guerra”.
Eros Barone
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