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Omicidio Quattrocchi, il termine “mercenario” è fuori luogo

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14 Gennaio 2006

Egregio Sig. Direttore,
intervengo per esprimere – in questi giorni, in cui se ne fa un gran parlare – sul “caso” Quattrocchi: ebbene, in tutte le missive lette finora (apprezzabili/condivisibili o, meno che siano) si notano, sempre e comunque, delle “tensioni” (para-)politiche decisamente decisamente
esagerate. Io, dal canto mio, preferisco analizzare la questione con un maggiore distacco: anzitutto, occorre mettersi d’accordo sul significato che si vuol dare al termine “mercenario”. È legittimo assegnare al sostantivo un valore generalistico di “servire un padrone per mercede” – come fa il Sig. Zappoli -, ma noi ben sappiamo che nell’uso comune si suole assegnare, con valore attributivo, a chi viene arruolato in un “esercito” o, facente funzione, per combattere una guerra. Ebbene,
Fabrizio Quattrocchi – e non entro (ancora) nel merito del presunto eroismo – non era un mercenario. Altrimenti, dovremmo supporre che (per le mansioni che svolgeva) tutte le guardie giurate che operano nel nostro Paese lo siano. E mi sembra ingeneroso, verso chi difende (retribuito, è ovvio) determinati avamposti, che possono essere -banalmente – anche le abitazioni private di chi può permettersi questo servizio. L’anomalia – in questo caso – è data semplicemente dal fatto che Quattrocchi, come i suoi compagni, si trovava in Iraq. Parlo di “anomalia” perché è indubbio che non ci si trovi in una situazione contuetudinaria, dal momento che l’Iraq subiva (e subisce) una guerra d’occupazione. Ciò nonostante, il lavoro che il gruppo di sequestrati svolgeva resta del tutto legale (e alieno alle operazioni di guerra) qui, come in qualunque Paese del mondo “democratico”. La liceità del
mestiere in esame viene a decadere, appunto, per il non trascurabile dettaglio che si trovasse in un Paese occupato. Ma, ancora una volta, non si può tacciare un individuo d’essere un mercenario semplicemente perché svolge un lavoro legale in una situazione – quantomeno –
“particolare”. Gli stessi archeologi italiani, impiegati nel restauro e nella catalogazione (et similia) dei beni artistici irakeni svolgono un lavoro legittimo in una condizione borderline. Come pure quanti – e lo
verremo mai a sapere dai giornali!? – dovessero ottenere appalti per la “ricostruzione” di ciò che è stato distrutto (anche) dal nostro esercito. Ma, in ogni caso, il termine “mercenario” è fuoriluogo. Non si dovrebbe lasciare che la condisibile (e condivisa) posizione in merito all’intervento italiano – ossia, riguardo la sua illegittimità – “contamini” le considerazioni sulla vita (e la morte) di un nostro connazionale: l’unico elemento “eroico” di tutta questa vicenda è come
Fabrizio Quattrocchi sia morto. Il che è – oggi – sotto gli occhi di tutti. Anch’io – come la Sig.ra Dabalà – non ritengo che intitolare una via, una piazza o, quant’altro a Fabrizio Quattrocchi sia un atto dovuto, tutt’altro. Semplicemente non mi sento d’entrare nei giochi di
“fazione” – da Lei, in un certo senso, fomentati – sul fatto che sia o, meno uno di “noi” (che, poi, “noi chi”!?). Non è cosa che si possa insegnare, il senso d’appartenenza alla Patria, anche perché “cosa” sia la Patria è una questione aperta: per me la Patria è morta nel ’45
(anzi, due anni prima, l’8 settembre), per altri era/è la “madre” Russia, per altri ancora è una macro-regione – che ricalca grossomodo i
confini della Repubblica Sociale Italiana – indefinita che sogliono chiamare “Padania”. Noi Italiani siamo “curiosi” anche da questo punto di vista. Ciò che mi dispiace, sinceramente, è che s’attribuiscano indebitamente a Quattrocchi caratteristiche, ideologie e volontà che –
probabilmente – non gli competono: Quattrocchi non è morto sul lavoro (che, peraltro, non contemplava la guerriglia), bensì ucciso come ostaggio. E, per quanto io sia uno strenuo difensore della resistenza
irakena (che fu, peraltro, sciita e bah’atista, né sunnita, né – tantomeno – wahabita… tanto per “aprire” un’altra questione…), il sequestro di un civile – peraltro, da parte di civili – è “sanzionato”(o, meglio, non è normato, in quanto non considerato lecito) anche dalla
Convenzione di Ginevra, quand’anche si dovesse dare ai sequestratori lo status di combattenti (che pure è stato negato ai valorosi soldati dell’RSI… figuriamoci a non-meglio-identificate milizie “islamiche”, che non mi scandalizzerei di vedere sul libro paga di CIA o, Mossad). In definitiva, eviterei di giudicare l’uomo – bistrattato, tanto a “destra”, come a “sinistra” – e preferirei s’apprezzasse (al più) il “simbolo”: non tanto per un vago “eroismo”, che si riduce allo sprezzo del pericolo nelle ultime fasi della sua tragedia umana, quanto per
un’esternazione d’orgoglio che – oggi – nessuno di noi avrebbe il coraggio di sostenere. Quello che dovrebbe insegnarci la storia di Quattrocchi è che, a prescindere dalle diatribe di fazione, siamo tutti parte di un’entità nazionale, una koiné, che viene prima degli interessi
particolaristici ed individualistici. L’Italia.

Federico, A. Moretti - Segr. Prov. - Gioventù Nazionale

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