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Abbiamo un “Nuovo Ospedale” di vecchia concezione

monoblocco ingresso
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24 Gennaio 2018

Egregio Direttore,
mando a Lei queste note come attestazione di stima e per ringraziarLa dell’attenzione, anche critica, ma intelligente, che Varesenews ha sempre riservato e riserva all’Ospedale di Varese, attenzione rimasta un unicum nel panorama giornalistico locale.

Tratto di una vicenda a Lei nota, vista semplicemente dall’ottica di un protagonista, e con ciò voglio anche rendere omaggio a tre personaggi, il comm. Dante Trombetta, il dott. Sergio Salvatore e il prof. Bignardi, troppo frettolosamente dimenticati e classificati come espressione di un modello di gestione riconosciuto efficiente, ma non più in linea con la cultura politica dominante. Hanno amato Varese e i varesini e hanno dedicato impegno e passione per l’Ospedale di Varese, coniugando l’attenzione al bisogno di salute dei cittadini con l’attenzione alla soddisfazione professionale e personale dei dipendenti.

So bene che non serve piangere sul latte versato, ma credo che si debba conservare la memoria di alcuni eventi cruciali. Credo a questo punto di essere l’ultimo testimone vivente di un ristretto gruppo di lavoro che, su impulso e sotto la guida dei personaggi sopra citati, si adoperò per dotare Varese di un ospedale che potesse reggere il confronto con i migliori centri europei.

Negli anni ’90 apparve evidente che, sia in senso assoluto che comparativo, l’Ospedale di Circolo di Varese era sulla via dell’obsolescenza. Era un grosso ospedale, ma non più un grande ospedale. Da questa considerazione nacquero due obiettivi: stabilizzare e qualificare l’apporto dell’Università e realizzare un nuovo ospedale. Il primo obiettivo fu raggiunto grazie anche al coinvolgimento e all’impegno di cattedratici, magari di non facile gestione, ma di valore assoluto (fra gli altri e soprattutto i Professori Dionigi, Cherubino e Capella). Il secondo risultò più complesso.

Si cercarono modelli di riferimento, impresa non facile, perché allora gli ultimi ospedali realizzati in Italia, la prima generazione del dopoguerra, erano stati fatti su progetti degli anni ’50-’70, e quindi già vecchi. Si decise quindi di “aprire le finestre sul mondo e non sul cortile”. Abbiamo scartato subito i modelli Nord Americani, funzionalmente troppo distanti dalla mentalità italiana, e prendemmo in considerazione i maggiori ospedali europei di più recente realizzazione, concludendo che valeva la pena di approfondire l’esperienza della Baviera che era già arrivata a realizzare nel dopoguerra tre generazioni di ospedali (Monaco, Norimberga e Ausburg), tutti compatibili con la mentalità italiana e ciascuno realizzato tenendo conto dei limiti registrati nella generazione precedente.

Ci concentrammo sull’ultima generazione, Ausburg, che, quando ce ne siamo occupati, era in funzione da cinque anni. Lo studiammo a fondo per quasi due anni, grazie alla cordiale collaborazione dei colleghi tedeschi, che arrivarono anche a segnalarci che cosa avrebbero voluto modificare con l’avvento delle nuove tecnologie nel frattempo arrivate a maturazione.

Acquisimmo un ricco patrimonio di conoscenze strutturali, impiantistiche, logistiche e funzionali innovativo per il contesto italiano, che pensavamo di poter trasfondere nel bando per un nuovo ospedale. Avevamo messo a punto il dimensionamento della nuova struttura (850 posti letto contro i circa 1200 allora esistenti), oltre a un dipartimento materno-infantile dotato di un pronto soccorso dedicato. Grazie alla collaborazione della Provincia, proprietaria dei terreni, si era aperta la possibilità di collocare la nuova struttura nelle aree limitrofe all’allora ospedale psichiatrico, operazione questa non solo economicamente più conveniente, ma che avrebbe concorso in maniera rilevante al finanziamento del nuovo ospedale con la vendita e una diversa destinazione delle aree occupate dai padiglioni allora esistenti, aprendo anche la possibilità di una revisione da parte del Comune dell’assetto urbanistico e viabilistico del comparto sul quale insisteva e insiste l’ospedale. Si erano stimati i costi della nuova struttura, che sarebbero stati, col senno di poi, equivalenti al costo complessivo del “nuovo” monoblocco e del padiglione Day Center dell’attuale ospedale, ma con risultati ben diversi. Si era anche studiato un piano finanziario imperniato sul pre-finanziamento quasi totale di un istituzione pubblica di rilievo nazionale in cambio della cessione, una volta realizzato il nuovo ospedale, dell’area occupata dal vecchio ospedale, al netto di quelle sulla quale insistono Villa Tamagno e il nucleo storico del Padiglione centrale, che sarebbero state preservati con diversa destinazione di interesse pubblico. A carico della Regione sarebbe rimasto il solo acquisto dei terreni di proprietà della Provincia sui quali sarebbe stato realizzato il nuovo ospedale. Grossi e qualificati gruppi imprenditoriali, interpellati informalmente, anche se fra di loro concorrenti, concordarono sul fatto che un nuovo ospedale con le caratteristiche indicate avrebbe richiesto non più di cinque anni di lavori.

Noi abbiamo svolto il lavoro fin qui sintetizzato semplicemente come dovere d’ufficio, senza cercare sponsorizzazioni politiche locali e/o regionali da parte delle componenti politiche allora dominanti (una nostra ingenuità?) e ciò che ne scaturì fu un percorso esclusivamente tecnico. La politica reagì bocciandolo senza entrare nel merito, con accuse che definirei becere, come quella che avremmo semplicemente “copiato” Ausburg o che “un’operazione come quella ipotizzata “non poteva non essere tangentata”. Il progetto del Nuovo Ospedale di Varese passò in altre mani, lontane da Varese, e tutto il lavoro compiuto e il patrimonio di conoscenze acquisito andò sprecato, ignorato e denigrato.

Oggi abbiamo un “Nuovo Ospedale” di vecchia concezione, caratterizzato dallo spreco degli spazi e dalla carenza di posti letto, dall’allungamento dei percorsi per la dispersione dei servizi fra il vecchio e il nuovo, con basso, anche se enfatizzato, livello tecnologico sul versante logistico, con una gestione dei ricoveri e delle prestazioni ambulatoriali sostanzialmente tradizionali, con opere spesso eufemisticamente “approssimative” per limiti progettuali e della direzione lavori, bisognose di sempre nuovi finanziamenti per sopperire alle carenze più evidenti che tuttavia non elimineranno ai vizi d’origine. Però il monoblocco è stato realizzato da un pool di imprese ciascuna riconducibile a una forza politica regionale, e questo ha accontentato tutti, compresa la direzione lavori, che è stata affidata a infrastrutture Lombarde.

Il lato comico, o tragico, della vicenda è che ciò che avevamo appreso faceva parte di una nuova cultura che si andava diffondendo in Europa, e di cui Ausburg fu solo il primo esempio realizzato, di un diverso approccio al tema dell’efficienza ospedaliera. Era una nuova cultura ignorata da una politica miope e non applicata al settore pubblico, ma ben recepita dal privato accreditato, che ha creato, anche non troppo lontano da noi, centri clinici di eccellenza per efficienza ed efficacia, che hanno attratto molti dei nostri specialisti e i loro pazienti, ma anche una schiera di nuovi pazienti del nostro territorio sulla base del passa parola. Alcuni di questi centri sono tuttora grati per le inefficienze dell’Ospedale di Varese e per le polemiche che hanno investito la cardiochirurgia, che hanno consentito loro di incrementare il fatturato con prestazioni ad alto valore aggiunto.

E l’Ospedale del Ponte? Il trasferimento del materno-infantile al Del Ponte fu un evento necessitato, ma concepito come provvisorio perché erano evidenti le diseconomie e i problemi funzionali che ciò avrebbe comportato. Ma, si sa, in Italia nulla è più definitivo del provvisorio. Sulla destinazione finale dell’ospedale Del Ponte c’erano allora solo due ipotesi, con cinque anni per decidere in accordo con la Regione. La prima era una destinazione alberghiera, concretizzando l’interesse manifestato da una grossa catena del settore di dimensioni europee, la seconda, da noi preferita, era il mantenimento della destinazione ospedaliera come centro di cure intermedie per i pazienti dimessi dal nosocomio principale, ma ancora bisognosi di assistenza ospedaliera. Con la bocciatura dell’ipotesi del nuovo ospedale come da noi concepito, si preferì, anche su spinte esterne, il mantenimento dello status quo, indipendentemente dai problemi e dai costi che una simile scelta avrebbe ingenerato.

Con stima

Carlo Ballerio

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