La guerra sporca del Mare di Mezzo
Gabriele Del Grande da due anni segue le rotte dell'emigrazione e le storie delle vittime di una guerra senza esclusione di colpi. Che viola anche la legge sacra della gente di mare
Nel mezzo del Mediterraneo si sta combattendo una guerra sporca, che ha fatto 14995 vittime dal 1988 al marzo scorso. Gabriele Del Grande è un giovane giornalista toscano, ha ventott’anni e da due anni ha dedicato la sua vita professionale (e non solo) a raccontare questa guerra, dando voce alla parte più debole, quella delle migliaia di giovani, per lo più africani, che cercano di passare il mare per fuggire dalla povertà e dalle persecuzioni. La sua ricerca e le sue indagini hanno portato alla luce anche la vicenda degli eritrei prigionieri del regime libico. Una guerra sporca senza più regole, dove neppure l’Onu è in grado di farsi rispettare. Non esistono neanche più le regole sacre del mare: «L’abbiamo visto scomparire nella notte, con lo sguardo disperato», raccontano i marinai di un peschereccio siciliano, testimoniando contro il loro capitano che avrebbe ributtato a mare un naufrago e abbandonato gli altri su una barca in mezzo al mare. La legge umana del mare violata per mettersi al riparo dalle grane dal “cattivismo” invocato da un ministro e applicato con ferocia in almeno tre processi a carico di marittimi che avevano salvato vite umane e che si sono visti trattare da scafisti.
E in questa guerra sporca Del Grande si è gettato a capofitto come reporter ( i link rimandano al suo sito): le pagine della prima parte del suo ultimo libro, “Il mare di mezzo”, sono un’autentica, drammatica storia di spie, per far uscire dai Paesi del Nordafrica la voce e le testimonianze dei giovani uccisi, torturati e imprigionati: sembra un film americano sulla Guerra Fredda e invece è la realtà della Guerra Sporca del Mediterraneo. Ci sono i sindacalisti e gli operai delle zone minerarie tunisine, perseguitati per aver alzato la testa, e ci sono gli eritrei prigionieri in Libia, che lavorano come schiavi per la ruggente economia libica (che fa grandi affari con le imprese italiane). Quando non sono imprigionati in Africa, finiscono nelle galere europee, nei centri di permanenza temporanea e poi di nuovo sulle coste nordafricane. Respinti. O in fondo al mare o uccisi dalle guardie di frontiera. Del Grande ha documentato, ha portato a galla le storie: come quella (fotografata dal reporter Enrico Dagnino) dei profughi eritrei che pregavano sulla Bibbia alla luce della luna, senza sapere che a bordo delle motovedette italiane stavano tornando nelle mani dei libici. Ha raccolto testimonianzen e prove sugli omicidi nelle carceri libiche a cui l’Italia riconsegna i disperati, ma anche sul grande business dei CPT, che costano milioni di euro allo Stato. E ha tenuto il conto del massacro, grazie a centinaia di contatti, alla mappatura dell’informazione di tutti i Paesi del Mediterraneo, dall’Egitto alla Spagna, dalla Grecia all’Italia: sul suo sito il dato è aggiornato al marzo 2010, le vite scomparse, a quella data, erano 14955.
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