Il “ritorno di Dio”, la realtà dell’ateismo pratico di massa e il socialismo

13 Giugno 2017
Egregio direttore,
la lettera del signor Roberto Albano, pastore evangelico della Chiesa New Vision di Varese (cfr. la rubrica delle “Lettere al direttore” dell’8 giugno scorso), si presta ad alcune considerazioni, che come laico ritengo doveroso svolgere, sul “ritorno di Dio”o, per meglio dire, sulle concezioni dei fautori di tale “ritorno” e sul contesto storico-morale in cui esse si inseriscono. Prendo le mosse per questo mio discorso osservando che dobbiamo all’olandese Ugo Grozio, autore del trattato “De jure belli ac pacis”, atto di nascita del giusnaturalismo moderno, la definizione paradigmatica, sia sul piano scientifico-filosofico sia sul piano giuridico-politico, del laico, il quale, per l’appunto, è colui che è in grado di separare nettamente dalla religione non solo la politica ma anche la morale e la scienza, in quanto pensa ed agisce “tamquam si Deus non daretur” (‘come se Dio non esistesse’).
Aggiungo, inoltre, che risalgono proprio al periodo dei conflitti politico-religiosi tra cattolici e protestanti, che lacerarono l’Europa moderna, il significato liberatorio e la carica antiautoritaria ìnsiti nel principio giusnaturalistico del diritto di resistenza ad un governo ingiusto, in virtù del quale la dottrina dei monarcomachi cattolici, che teorizzavano (e praticavano) la legittimità del regicidio nel caso che il sovrano colpisse con la sua azione politica determinati interessi della Chiesa (cfr. Enrico IV, l’editto di Nantes del 1598 e l’uccisione del sovrano da parte di un fanatico frate cattolico nel 1610), era specularmene simmetrica alla dottrina, che deriva dal giusnaturalismo moderno, sulla base della quale nel 1649, durante la rivoluzione inglese, un tribunale popolare formato da puritani condannò alla pena capitale il re cattolico Carlo I Stuart.
Per quanto riguarda poi l’idea di persona, che, secondo l’ottica cristiana del signor Albano, è strettamente associata a Dio, mi sembra evidente lo sforzo, tipico delle concezioni religiose monoteistiche, nel conciliare l’‘alterità’ di Dio rispetto all’uomo con la ‘somiglianza’ di Dio rispetto all’uomo, anzi, per citare il linguaggio del pastore, “una viva e vibrante comunione con Lui”. Quella che emerge è quindi una visione chiaramente antropomorfica della divinità, che conferma l’arguta osservazione di Voltaire, secondo il quale “Dio ha fatto l’uomo a sua immagine, ma l’uomo lo ha pienamente contraccambiato”. Pertanto, ciò che ancora una volta sfugge a chi, come il pastore evangelico, adotta un’accezione astorica, ad un tempo metafisica e precritica, dell’idea di ‘persona’, è che tale idea non è un dato acquisito una volta per tutte, inquadrabile e risolvibile in una tranquilla e pacificante concezione sostanzialistica, ma intrattiene complessi rapporti, che l’antropologia, la psicoanalisi, l’economia, il diritto, la sociologia e l’etnologia hanno, in chiave funzionalistica, scandagliato e in parte chiarito, con altre nozioni, come quelle di ‘personalità’, individuo, proprietà, io, mente, anima, gruppo, famiglia, educazione, classe, ambiente, società, e così via ‘personalizzando’.
Consiglierei, dunque, al signor Albano, per un verso, di tenere presente, con Freud, le tre grandi ferite inferte al narcisismo universale (ossia alla concezione religiosa antropomorfica) dalla dottrina eliocentrica copernicana, dall’evoluzionismo di Darwin e dalla stessa psicoanalisi e, per un altro verso, di prendere atto che la problematica teologica, cui va ricondotta l’idea di persona per fondare quest’ultima su una solida base, appare a tal punto compromessa che si è resa perfino possibile, negli ultimi decenni, l’ipotesi di una ‘teologia senza Dio’. Ciò detto, mi limito a sottolineare che l’emotivizzazione del rapporto con Cristo-Dio, su cui puntano le correnti pentecostali, mi sembra una scorciatoia, oltre che una semplificazione, entrambe quanto mai riduttive della complessità che il discorso di (e su) Dio oggi richiede.
In realtà, volendo afferrare il nocciolo delle questioni che il pastore evangelico si pone (e ci pone), dobbiamo riconoscere che, se è vero che non può esserci ateismo completo che ‘dopo’ il cristianesimo” (cfr. il fondamentale saggio di Augusto Del Noce), è altrettanto vero che, da un punto di vista generale e, per così dire, di evoluzione della specie, il laicismo moderno, di cui l’ateismo moderno è l’espressione più alta, segna l’avvento di una fase in cui l’esigenza, ancestrale nell’uomo, di una trasfigurazione religiosa dei suoi problemi di rapporto col mondo e con la propria esperienza si avvia finalmente ad un esito razionale. A questa altezza dei problemi che si pongono agli uomini dell’inizio del terzo millennio, in un’epoca che, come dimostrano la mancata ‘parusìa’ e l’esistenza stessa della Chiesa (ossia il mancato ritorno di Cristo redentore), è ormai oggettivamente post-cristiana, sarebbe auspicabile che la risposta alle domande di senso e la ricerca di un’alternativa religiosa “ad una esistenza lontana da Dio, insensata e senza scopo” (cito dalla lettera del signor Albano) fossero costantemente misurate, oltre che sui successi numerici del proselitismo evangelico nel mondo contemporaneo, sulla realtà dell’‘ateismo pratico di massa’. Si tratta di un presupposto che, nei paesi più evoluti del mondo, ha un’evidenza impressionante, ma che, come tutto ciò che è noto, non sempre è conosciuto.
Si può descrivere tale presupposto in questi termini: milioni di uomini in Europa, tacitamente, senza dirlo, sono usciti dal cristianesimo e dalla Chiesa, si sono allontanati dalle prescrizioni religiose in materia di condotta individuale e sociale, hanno adottato modelli di vita completamente schiacciati sulla considerazione della dimensione mondana e immediata come criterio delle opzioni razionalmente valide, hanno smesso il cristianesimo come un vestito non adatto, hanno abbandonato il cristianesimo come se fosse un cimitero che si visita ancora occasionalmente, per motivi specialissimi, ma in cui non si abita e non si vive.
Occorre pertanto riconoscere che il capitalismo, in quanto modo di produzione onni-avvolgente della società in cui viviamo, ha pressoché completamente svuotato di senso l’ideologia religiosa, privandola perfino di quella carica che era costituita dal suo potenziale alienante e realizzando letteralmente e fattualmente il trionfo del nichilismo nicciano. Nella situazione che in tal modo si è generata diventa sempre più esteso il territorio (fisico, spirituale, politico e sociale) dominato da quelle che Spinoza definiva “passioni tristi”: precarietà, senso di impotenza, paura. Sennonché la religione si nutre di questa paura. Essa vuole che il reale non sia vero e che la finzione sia più vera del reale. La morte che è vera non esiste, ma l’immortalità che non esiste è vera: così è ogni religione. La civiltà, che si è cristallizzata intorno a questo bisogno ontologico-sociale, deve ora imparare a liberarsene e a vivere secondo ragione. Da questo punto di vista, nel protestantesimo pentecostale predicato dal signor Albano non vedo, pur con tutto il rispetto per la sincerità della sua fede, il superamento di questa ‘impasse’, ma un’ulteriore espressione della crisi che attanaglia la nostra civiltà. Soltanto il socialismo, sostituendo il modo di produzione capitalistico con un’economia pianificata e centralizzata e, in prospettiva, con l’autogoverno dei produttori associati, è in grado di attuare il passaggio dalla competizione concorrenziale alla solidarietà organica della specie umana. Esso rappresenta, per la stragrande maggioranza dell’umanità, l’unico effettivo superamento di tale crisi e della ‘Stimmung’ che la caratterizza: la paura.
Eros Barone
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