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La sveglia che non suona più al mattino: considerazioni crepuscolari di un insegnante

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17 Settembre 2012

La sveglia che suonava al mattino era per me, così come continua ad essere per tutti gli insegnanti in servizio, il segnale che indica la ‘necessità’ di alzarsi e di prepararsi per andare al lavoro. È da osservare che questa ‘necessità’ si presenta con un duplice volto, etico e fisico: da un lato, esprime l’imperioso richiamo del dovere connesso ad un lavoro che in qualche modo si è scelto, dall’altro inaugura un’articolata liturgia di atti e di comportamenti abitudinari attraverso la quale quel dovere viene assolto e quella scelta trova la sua attuazione.

Sentire risuonare nello squillo della sveglia il richiamo del dovere significa dunque alzarsi, e l’atto di alzarsi, che richiede uno sforzo della volontà, è in sé rassicurante, poiché non costringe a porsi la domanda cruciale se il lavoro, in funzione e in vista del quale l’atto è compiuto, esprima davvero il senso della scelta più o meno libera che ha reso praticamente ‘necessaria’ la catena di azioni, di cui tale atto costituisce il primo anello. Così, non ponendosi quella domanda si esclude dal campo delle possibilità tutta una serie di scelte egualmente possibili, quali l’assenteismo, il rifiuto di lavorare e il rifiuto del mondo. In altri termini, siccome cogliere il senso degli squilli della sveglia significa essersi già alzato al suo richiamo, questa percezione ci preserva da un’intuizione più sottile e più insidiosa che coincide, come ci hanno spiegato i filosofi dell’esistenza, con l’esperienza dell’angoscia. Da questo punto di vista, è opportuno ricordare che un antropologo influenzato dall’esistenzialismo, Arnold Gehlen, in suo saggio intitolato “Che cos’è l’uomo?”, attribuisce alle istituzioni la preziosa funzione della ‘Entlastung’, ossia dell’‘esonero’ dall’esperienza dell’angoscia, in cui precisamente consiste, a suo giudizio, ciò che le rende utili all’uomo.

   Così, ora che per me la sveglia non suona più al mattino, mi rendo conto che il passaggio dal lavoro alla pensione permette di cogliere, in modo differenziale, il duplice ‘decentramento’ che questo segnale esprime: quello del soggetto che io ero dal ‘mondo’ che voi, cari ex colleghi, siete, e quello del ‘mondo’ che io sono dai soggetti che voi siete. Mi chiedo perciò, nel momento in cui devo affrontare a viso aperto la sfida dell’angoscia senza poter più fruire del beneficio della ‘Entlastung’, quali siano i sentimenti contrastanti che nascono da questo ‘decentramento’. In effetti, come spesso accade, la gratificazione che nasce dall’essere padroni del proprio tempo, il raccoglimento di una quiete riflessiva e un volgersi più libero verso il soddisfacimento dei molteplici desideri che abbiamo accarezzato nel nostro animo, che si tratti di viaggi, di letture personali o di qualsiasi altro ‘hobby’, si intrecciano alla malinconia e al rimpianto per il senso di cessata appartenenza a quella ‘comunità di destino’ che è il mondo della scuola nelle sue espressioni più vive e nella dialettica impegnativa del ‘riconoscimento’ che lo caratterizza. Ripenso quindi, con rispetto e affetto (per l’alta funzione culturale e civile che viene svolta) e con timore e tremore (per l’ardua responsabilità didattica ed educativa che viene assunta), ai ‘luoghi’ in cui questa comunità si incarna ed opera concretamente: la sala dei professori, il collegio docenti, i consigli di classe, il ricevimento dei genitori, i viaggi di istruzione e, ‘last but not least’, le classi degli studenti a cui si insegna e da cui, più spesso di quanto non si sia disposti ad ammettere, si impara…

Sperando che queste considerazioni di un insegnante che ha varcato la soglia della pensione possano stimolare una più approfondita riflessione sulla forma-scuola e sul suo complesso rapporto con la vita, porgo a tutti gli insegnanti un fervido augurio di buon anno scolastico.

Eros Barone

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