Parla Mauro Corona: “Hanno svenduto il dolore del Vajont”
Mauro Corona, scrittore-boscaiolo, è uno dei sopravvissuti alla tragedia che sconvolse Longarone, Erto e Casso. Da sabato i turisti potranno passeggiare anche sulla parte superiore della diga

La sera del 9 ottobre 1963 Mauro Corona aveva appena 13 anni. Era con la nonna quando si vide passare sulla testa trecento milioni di metri cubi di acqua e terra. Camminavano sulla via di Erto e lei lo teneva per mano. L’onda fuoriuscita dalla diga del Vajont rimbalzò sul costone della montagna e risparmiò un pezzo del paese, compresi lui e la nonna.
La morte, però, aspettava paziente giù a valle: 1.910 vittime. Mauro Corona vive ancora a Erto. A distanza di 44 anni dalla tragedia, se gli chiedi quale sia il ricordo di quella sera, ti risponde senza esitare: «Il rumore». Un rumore indimenticabile e difficile da descrivere. «Pensa a un camion – racconta l’uomo – che svuota il cassone pieno di ghiaia e che la fa precipitare da un’altezza di cinquecento metri. Poi moltiplica il tutto per trecento milioni di metri cubi di terra. È un rumore apocalittico. Al regista del film (Renzo Martinelli, ndr) glielo avevo detto: se vuoi far capire alla gente che cosa è stato il Vajont, devi fargli sentire all’inizio del film due minuti di quel rumore».
Corona nel suo ultimo libro, “Vajont: quelli del dopo” (Mondadori), fa parlare i vivi con i morti all’interno dell’osteria del “Gallo cedrone” per cercare di ricostruire ciò che è rimasto di quel dolore. «I riflettori sul Vajont hanno scatenato reazioni diverse. C’è gente che fa finta di piangere, c’è chi fa le risse per una pagina di giornale e chi si inventa le cose perché ha scoperto che può diventare protagonista. Insomma, è nata la professione del “superstite”. Eravamo gente vera, boscaioli e contadini. Ma dopo lo spettacolo di Paolini, che io stimo molto perché ha portato all’attenzione del mondo intero la nostra tragedia, è scoppiato il caso mediatico».
La tragedia del Vajont continua ad attrarre turisti nella valle di Erto e Casso. La gente arriva da ogni parte d’Italia per cercare di immaginare l’apocalisse di quella notte e così l’amministrazione del parco ha deciso che da sabato prossimo i visitatori potranno anche camminare sulla parte superiore della diga. C’è anche chi è rimasto indifferente a tutto questo, rispondendo con il silenzio al dolore incolmabile, come la vecchia Rachele Filippini. «Lei ha perso tutto e tutti in quella notte – continua Corona – . Dei suoi 14 parenti, non avevano trovato nemmeno i corpi. Eppure non ha mai chiesto nulla, non ha mai aperto bocca».
La questione dei risarcimenti è ancora una ferita aperta a Erto, come quella del monte Toc. I due fronti, quello dei superstiti e quello dei sopravvissuti, si scontrano non solo nel libro di Mauro Corona. «Chi ha accettato e firmato la transazione per il risarcimento ha sbagliato. Quanto vale un padre? Un milione di lire. E una madre? 400 mila lire. Ci hanno divisi e abbindolato, sfruttando il bisogno del montanaro vissuto nella fame e nelle ristrettezze. E allora nel mio libro il personaggio dell’oste, che rappresenta la coscienza critica, chiede ai presenti: “Come fai a comprarti una Fiat 600 con il corpo di tuo fratello”?
Intanto il paese vecchio sta cadendo a pezzi e la civiltà ertana, vecchia di ottocento anni, è stata cancellata per sempre in soli due minuti. Dopo averci diviso, ci hanno seminato nelle città come chicchi di granturco».
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