“L’uomo che verrà”: lo sguardo di Martina sul flagello della guerra
Il film di Giorgio Diritti, dedicato all'eccidio nazista di Monte Sole (Marzabotto), coniuga in modo duro e asciutto un realismo profondo, con l'uso del dialetto originale, al dovere della memoria
Una comunità contadina catapultata nel caos di un Paese occupato ed affamato. Una povertà dura ed aspra fra le colline dell’Appennino bolognese. Gli occhi parlanti di una bambina muta. Le divise, gli elmetti, le parole di serpente degli assassini. Questi gli ingredienti essenziali di quello che è a nostro avviso un piccolo capolavoro del recente cinema italiano, per valori etici ma anche per meriti artistici, che circola in queste settimane fra i cinema varesini: "L’uomo che verrà" di Giorgio Diritti, bolognese classe 1959, figlio di esuli istriani, già aiuto regista di Pupi Avati.
Parliamo di un film duro, spietato, che lascia con il cuore stretto dall’angoscia di fronte alla bestialità umana scatenata in guerra. Lo scenario è quello di Monte Sole con le sue frazioncine, vicino a Marzabotto, tra il dicembre 1943 e l’inaudito massacro nazista di civili del settembre-ottobre 1944. Al centro, lo sguardo della protagonista, una bimba di otto anni, Martina, rimasta priva della parola da quando un fratellino neonato le è morto fra le braccia. E che da allora aspetta. Aspetta "l’uomo che verrà". Quello che è nella pancia della mamma, che cresce di scena in scena. L’uomo futuro che con i suoi vagiti, con il suo bisogno di latte e calore e conforto, le farà ritrovare la parola, quando lui e lei, unica sopravvissuta a una strage di donne e bambini, saranno soli.
La piccola, affidata alle qualità eccezionali di una precocissima attrice, Greta Zuccheri Montanari, con il suo mutismo e il suo sguardo implacabile, "telecamera della verità", si fa plasmabile strumento del regista per raccontare la storia "dal basso" e attraverso le parole degli altri personaggi. Parole in un dialetto emiliano strettissimo, sottotitolato e filologicamente impeccabile, come tutta la ricostruzione, minuziosa e perfetta, di attrezzi, costumi, usi, mentalità di una comunità agricola ricca solo di dignità e di legami reciproci. Su cui la guerra si abbatte come un maglio. Non essendo bastata la guerra fascista, arriva l’invasore tedesco. E contro di esso si muovono i ribelli, i partigiani, la "Stella Rossa" del comanda Lupo – al secolo, Mario Musolesi, anch’egli caduto durante il massacro. Ribelli per i quali si percepisce una istintiva simpatia per la giustezza della causa, ma che non fanno necessariamente e sempre una "bella figura" da retorica resistenziale. Una delle scene più forti del film vede la piccola Martina assistere sconvolta all’assassinio a sangue freddo di un giovane militare tedesco costretto a scavarsi la fossa: lo stesso soldato che il giorno prima divideva il pane con i civili cui avrebbe dovuto confiscarlo in nome del Reich del millennio. I ribelli, già vittoriosi in vari scontri, dovranno poi assistere da lontano, impotenti di fronte a reparti di ben altra consistenza e armamento, alla deportazione e al massacro dei civili – i loro parenti, la loro comunità.
Dall’altra parte dell’umanità, le SS naziste. "Siamo quello che ci hanno insegnato ad essere, è questione di educazione" dirà ad un giovane prete un ufficialetto, con la sadica pretesa filosofica degli assassini, che osano fare la morale alle loro vittime. Ma anche tra loro, tra gli impazziti che delireranno ubriachi banchettando dopo la strage, si trova ancora chi esita a sparare con la mitragliatrice su civili indifesi e terrorizzati, a riprova che sotto la pelle del mostro si nasconde ancora l’uomo. O chi, a sue spese, risparmia una donna perchè le ricorda la moglie (qui il regista prende spunto da un episodio vero della strage).
Mostrando poco o niente sangue, evitando scene alla "Salvate il soldato Ryan", concedendosi il lusso di un effetto speciale per descrivere un attacco aereo, Diritti ha il merito di realizzare un film storico in un periodo in cui è diventato ormai quasi impossibile per mancanza di set all’aperto praticabili senza trovarvi elementi moderni, di scegliere la lingua originale, pagando con difficoltà di distribuzione in sala, quando ormai il dialetto è patrimonio vivo dei soli anziani, di fare sobriamente e con forza memoria quando si preferiscono l’amnesia, la confusione o il ricordo a senso unico.
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