Emil Gilels: un “leone” per Beethoven
Nel mese di ottobre di ventisette anni fa, moriva uno fra i più grandi pianisti di tutti i tempi.
Emil Gilels – nato a Odessa nel 1916 e scomparso a Mosca nel 1985 per complicazioni cardiache – ha rappresentato l’immagine del sovietico cresciuto nella durezza dell’arte. Nessun sorriso, se non per bon-ton dettato dagli obblighi della vita pubblica. Riservato e riflessivo, non amava la mondanità, i circoli, le frasi di circostanza. Con Sviatoslav Richter aveva condiviso la classe al Conservatorio di Mosca, nel 1938 aveva sbaragliato Arturo Benedetti Michelangeli e Moura Limpany all’Ysaye International Festival di Bruxelles, studiava la tecnica di Artur Schnabel e Walter Gieseking. Ma il suo Beethoven, le sonate, sono tuttora un punto di partenza e d’arrivo per l’interprete che vuole capire e per l’ascoltatore che si concede alla fascinazione. Dotato di una tecnica fluida e irraggiungibile, Gilels fu insegnante ma, ancor più, interprete. L’insegnamento stanca soprattutto coloro che debbono pensare a come eseguire anche una sola battuta con il giusto sentimento. Perché suonare è un fatto di cuore e di intelletto. Il virtuosismo non è tutto. Anzi, deve rappresentare solo una parte del lavoro del concertista. Ed ora Ludwig van Beethoven: si potrebbe scegliere una sonata a caso del compositore tedesco – la ricercatezza nella Waldstein, la cordialità nefasta nella Hammerklavier, la gentilezza ribelle nella Pathétique – per entrare in un vortice sonoro dove la “voce” di Gilels è la “voce” della musica. Dove il colore non è pittura, ma taglio nella pagina. Policromia delle frasi, del gusto, del fraseggio. Nel Beethoven di Gilels – il “leone” della musica – si avverte il sogno terapeutico di chi sa che suonare potrebbe essere anche un incubo meraviglioso. È frenesia e contrasto.È, soprattutto, una rinascita che si compone di tante, piccole, “morti”. Come accadeva in Gilels e nel suo Beethoven. Non esiste frase, o episodio, nel quale il pianista russo rinunci a compiacere se stesso per donarsi completamente alla vocazione del racconto e di una “ortodossia” contagiosa che non pone, in primo piano, l’interprete ma il sacerdote di questo rito segreto. Per Gilels, l’interpretazione somiglia ad una celebrazione. Ma non c’è protagonismo, semmai l’umile scelta di scomparire nella partitura. E rigenerare quel susseguirsi di potenza incantatoria che solo un artista, “strumento di Dio”, può riscoprire. Il Beethoven di Gilels, dunque, diviene – a tratti – il poeta dell’intentato. Un narratore di meraviglie, di arpeggi miracolosi, di corse pazzesche. Di un ritmare incontrastato nel quale il vortice del tempo non trova soluzione. E’ qui, in questo incedere piramidale, che si ritrova tutta la potenza – umana – di Gilels. Come scrisse Piero Rattalino poco dopo la sua morte, «uno di quegli artisti che non si possono sostituire». In Beethoven e in altro.
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