Al Del Ponte ho trovato professionalità e umanità

Un marito racconta le fasi drammatiche della malattia che ha colpito sua moglie all'ottavo mese di gravidanza. E la grande disponibilità e bravura del personale medico e infermieristico

È domenica, sono rilassato sul divano, aspetto che la Juventus inizi a giocare l’anticipo di serie A.

Sono  le 12:00 in punto, si affacciano i primi commenti dei telecronisti. Mia moglie è al mio fianco, riposa dopo una notte insonne.
Spesso, come credo tutti noi, durante il riposo le terminazioni nervose ci fanno “scattare” e io, ogni volta che mi accorgo dei movimenti improvvisi del corpo di mia moglie, sorrido, facendole una carezza tra i capelli.
Eccola scattare ancora. Lo fa pure mentre dorme sul divano di casa. Sorrido, ma non faccio in tempo a portare la mia mano sulla sua fronte che da sotto la coperta di lana, spunta la sua mano, tesa, con le dita a formare un cinque rigido e nervoso che vibra come se fosse attaccato ad una presa elettrica. La scopro togliendo la coperta, e in quell’istante scopro anche cos’è una crisi eclamptica. La prendo tra le mie braccia, non so proprio cosa fare. Le chiedo di non morire, e con lei di salvare il bimbo di otto mesi che custodisce dentro il suo grembo.
Mi fermo qui.
Sono le h. 12:30. Arriva il 118. Prima di salire sopra l’autoambulanza, mentre dei volontari posizionano la barella di mia moglie, chiamo il prof. Fabio Ghezzi, responsabile all’ospedale F. del Ponte. Sono confuso al telefono: “…professore, la prego mia moglie sta molto male, tanto… per favore… venga all’ospedale.”
Ghezzi non riesce a capire, il pianto mi sta assorbendo la voce.
Arriviamo all’ospedale. Il professore è già lì.
Fiacco e abulico mi avvicino a lui, che appena mi vede mi dà una pacca sulla spalla e dice: “Non si preoccupi.”
Mia moglie è entrata in sala operatoria in coma profondo alle h. 13:10, dopo due crisi convulsive dovute all’eclampsia, in una presunta qualsiasi domenica. Sono trascorsi quattordici minuti, e alle h. 13:24 con un taglio cesareo è nato mio figlio.
Mi trovo in un corridoio, di fronte a me c’è una donna. La mia famiglia, tutta la mia famiglia invece, è in rianimazione. “Il professore le spiegherà tutto” mi dice quella donna….
 
Sono passati diversi giorni da quella domenica e la mia famiglia, tutta la mia famiglia ora è salva.
Adesso, ecco il mio però…
La gente deve sapere. Io ho l’obbligo di condividere con loro tutto questo.
La vita non può permettersi di essere appiattita da lamenticci. Ne ho letti troppi. Ne ho sentiti di peggio sulla sanità italiana. Tanta realtà è triste realtà, è vero, ed è vittima di meccanismi che non ho né voglia e né  intenzione di considerare con queste parole. Ma l’Ospedale Del Ponte con la sua ristrutturazione che lo rende ancora poco grazioso e accogliente, è da tanto tempo facchino instancabile del servizio più importante: quello di accompagnare, curare e di salvare la vita; e questo lo svolge nonostante tutte le sue imperfezioni, alle quali dopo dieci giorni orribili, ho iniziato addirittura a voler bene.
Questa lettera non vuole essere un elogio al personale che lavora in ospedale, ma all’umanità che li accompagna, e alla vita in genere, perché oggi al posto di queste parole, avrei potuto scrivere un necrologio.
Il professore Ghezzi non era di turno quel giorno, e ancora non era il ginecologo di mia moglie. Al telefono invece di rispondermi spicciolo di raggiungere l’ospedale, perché lì i suoi colleghi avrebbero pensato a tutto, si è precipitato. Non aveva la più pallida idea di chi fossi, ci eravamo sentiti una sola volta al telefono qualche tempo fa, perché avrei voluto che seguisse mia moglie, ma non ci siamo mai incontrati. Però la sua umanità lo ha portato lì, è stata la sua passione per il lavoro che gli ha permesso di salvare la vita di una giovane mamma e del suo piccolo bambino… ma anche di guarire la mia vita.
 
E’ l’umanità che fa di un dottore, di un medico, o di qualsiasi altro mestiere un grande uomo, non basta la sola professione che esso svolge. La gente lo deve sapere.
La gente deve sapere che è inutile lagnarsi per un cartello informativo attaccato ai muri con lo scotch, tra un reparto e l’altro. E’ del tutto sterile lagnarsi del cibo che sa fin troppo di ospedale, o di un sorriso mancato o di un tono di voce non soppesato di un operatore, che inizia il suo turno di lavoro sapendo che dovrà lavorare per due o per tre, perché il personale scarseggia. E’ fin troppo facile distruggere, attaccare anziché lodare e complimentarsi, ma questa volta no.
Allora Grazie al primario di neonatologia il dott. Massimo Agosti, che con la sua struttura ha salvato mio figlio, regalandomi un abbraccio durante le dimissioni. Grazie a tutte le ostetriche, che hanno ricreato una sorta di centro estetico nella affliggente stanza di sub-intensiva, lavando dai piedi alla testa mia moglie, che si rincuorava sotto l’asciugacapelli che soffiava accompagnato dal loro sorriso e da un pettine, che in quella stanza raccoglieva capelli e tentava di racimolare normalità. Grazie al prof. Fabio Ghezzi e a tutti i suoi colleghi: i rianimatori del Circolo, ai neurologi, anestesisti, ai cardiologi e ginecologi che hanno curato e accompagnato mia moglie. Grazie.
…se fosse andato tutto liscio, io e mia moglie ci saremmo lamentati di qualcosa, solamente per il gusto di farlo?
Non lo so, sono sincero, ma noi la lezione la abbiamo imparata a nostre spese, ed è per questo che voglio avvertire gli instancabili criticoni, che si cibano di questa superficialità, e che leggendomi magari pensano:“…il personale ha fatto solo il proprio lavoro… e ci mancherebbe pure.” Io rispondo senza alcuna contro polemica:  “No. Hanno fatto solo il loro lavoro, ma con filantropico amore, passione e grande umanità. E’ questo che la gente deve sapere.”
 
Signori, c’è vita sulla terra! 

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 19 Febbraio 2013
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