ES17, a Festival Glocal il racconto della “paranza dei bambini”

Il film "ES17, Dio non manderà nessuno a salvarci" è stato proiettato tra gli eventi del Festival del giornalismo digitale. L'inviata di Repubblica Conchita Sannino ha raccontato come è nato e i suoi significati

Glocal 2018

Un pugno nello stomaco che arriva dritto, forte, secco.

A Festival Glocal 2018 venerdì 9 novembre in Camera di Commercio si sono vissute due ore di immersione nel mondo della cronaca, grazie al docufilm “ES17, Dio non manderà nessuno a salvarci, realizzato dal Gruppo Gedi e da 42° Parallelo, scritto dalla giornalista di Repubblica Conchita Sannino e dall’autrice Diana Ligorio.

Due ore volate via tra la visione del documentario e le riflessioni di Conchita Sannino, inviata di Repubblica, una delle firme del giornale del Gruppo Gedi con cui collabora da quando aveva venti anni.

Il film ripercorre la carriera criminale di Emanuele Sibillo, ES17, morto a 19 anni ucciso in un agguato di Camorra nelle vie del centro di Napoli nel 2015. Era il capo della “paranza dei bambini” raccontata per la prima volta da Roberto Saviano, da cui viene l’idea del lavoro sviluppato in tre tronconi: un documentario, un reportage di 8 pagine firmato dalla Sannino e una web serie pubblicata sulle pagine web di Repubblica.

Le parole di Mariarka Savarese, la compagna di ES17, si alternano alle immagini dei due ragazzi prima e dopo che Emanuele diventasse un boss della Camorra: scene di vita quotidiana, scherzi, serate. Gli interventi del giudice Catello Maresca, uno di quelli che ha messo fine ai 16 anni di latitanza di Michele Zagaria, danno il quadro di quella che poteva essere e non è stata la vita di Emanuele Sibillo: quando era in comunità emergeva per intelligenza, voglia di fare, capacità. Ma ha scelto la strada sbagliata, aveva già in mente di diventare quello che poi è diventato, un boss.

Conchita Sannino ha raccontato come è nato il film, da dove viene il titolo (“Dio non manderà nessuno a salvarci” è una frase pronunciata da padre Alex Zanotelli al funerale di Genny Cesarano), rispondendo alle domande sull’ambientazione, sulla tipologia di documentario, sulla difficoltà di entrare in confidenza con la compagna di un boss, sul futuro di Napoli: «Era la prima volta che collaboravo alla realizzazione di un film documentario come questo – ha detto -, è stato difficile, ma allo stesso tempo stimolante e bello: penso che la cosa migliore da fare quando ci si avvicina ad un “nuovo” modo di comunicare sia farlo con la professionalità che si ha, dando il meglio, studiando, conoscendo, utilizzando le carte. In questo film c’è lo sviluppo di un’inchiesta lunga, complicata. Entrare in relazione con Mariarka è stato difficile, è stata brava prima Diana ad approcciarla e convincerla: penso che il materiale che c’è nel film sia unico, forse è la prima volta che si vedono immagini simili, vere, reali. Ogni volta è un pugno nello stomaco: ne ho viste tante nella mia carriera (per dire, Conchita Sannino ha intervistato “Sandokan” Schiavone nella sua casa di Casal di Principe quando il boss era ancora a piede libero, ndr), ma vedere le scene della sparatoria o dell’ospedale è sempre un’esperienza forte. Nel film sia Emanuele che Mariarka dimostrano la consapevolezza del male, del loro essere dalla parte del torto, dell’ineluttabilità del loro destino. Ma sono anche fermi nel perpretarlo, quel destino criminale. Per sconfiggere tutto questo, per dare realmente un futuro a tanti ragazzi che non hanno punti di riferimento nella società civile e nello Stato servono strategie globali, progetti seri, che però al momento non ci sono. Come Emanuele ci sono tanti altri giovani per cui non si riesce a far niente, non solo a Napoli. La differenza fra chi sceglie una vita normale e chi sceglie la via criminale è l’assenza della famiglia, dello Stato, dei rapporti più stretti capaci di far la differenza».

Dio non manderà nessuno a salvarci. Nuovi linguaggi del giornalismo d’inchiesta

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Pubblicato il 10 Novembre 2018
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