Nestore, il tipografo del Polesine che stampava il giornale della Pro Patria

Nestore Marangon viene da Porto Viro, terra dura sul delta del Po che nel 1951 fu devastata dalla grande alluvione. In Lombardia, vicino a Malpensa, ha trovato un lavoro e ha costruito la sua vita

Arsago Seprio generica

Dal Polesine alla zona di Malpensa, dal delta del Po al lavoro da tipografo. Nestore Marangon ha 79 anni, oggi abita ad Arsago Seprio: è uno dei veneti del Polesine che – dopo l’alluvione del 1951 – hanno trovato casa in Lombardia.

Racconta una storia di vita dura, di gente partita da terre di grande povertà. La famiglia Marangon viveva a Ca’ Cappellino, una fila di poche case su una strada quasi rubata all’Adriatico, oggi frazione di Porto Viro. In cielo volavano già i jet, ma allora tutta la terra (e l’acqua) del Polesine appartenevano a grandi proprietari – nobili veneziani, padovani – che lasciavano ai contadini il minimo per sopravvivere.

«In famiglia eravamo in sei sorelle e un solo maschio, io» ci racconta. «Mio padre è morto a una perforazione di metano lì sul delta: dopo quella morte hanno chiuso tutte le perforazioni sul Delta, anche per l’abbassamento che stava provocando. Quando mio padre è morto sono stato assistito dall’
Ente Nazionale Orfani Italiani, in tre ci hanno mandato in orfanotrofi, gli altri sono rimasti con mia mamma. Nel 1951 io ero a Monselice e due mie sorelle  ad Adria. A Ca’ Cappellino c’erano mia mamma e le mie sorelle maggiori».

«Gli argini si sono rotti a Occhiobello, a sessanta chilometri. 

Passavano gli elicotteri ad avvisare di spostare gli animali sull’argine del Po: l’acqua è arrivata due ore dopo, tre metri-tre metri e mezzo, fino al secondo piano. La nostra casa però ha resistito».

Le sorelle sono state evacuate a Moglie di Mantova, accolte dalla locale parrocchia. 
«Mia mamma è rimasta sull’argine, con un recinto di balle di fieno per gli animali» Mesi d’inverno durissimi, circondati dall’acqua che non riusciva a defluire. «Sono stati aiutati da mezza Europa, ma c’erano i furbi che si prendevano di tutto, mia mamma si è accontentata di sessanta coperte militari… C’erano i ladri, si davano il cambio per fare la guardia alle bestie».

L’alluvione rese ancora più dura la vita nel Polesine, che era dominata dal latifondo. Molti abitanti erano socialisti e comunisti, la Chiesa inviava qui dei missionari: a Ca’ Cappellino c’era don Pietro Balzi, bergamasco, che per non essere identificato come uomo di potere vicino ai padroni che possedevano la terra, don Pietro lavorava nei campi con i suoi parrocchiani.  Dopo l’alluvione rimase in quella piccola comunità

Alluvione Polesine 1951
 Foto dal libro “Costruttore d’amore”: padre Pietro Balzi di Ca’ Contarina – missionario in quella terra poverissima e “rossa” – va a dire messa su una barca, accompagnato da due chierichetti

«Mia mamma è rimasta sull’argine fino a Pasqua del 1952 (che cadeva al 13 aprile, ndr), quando l’acqua si è ritirata. Sono rientrato anche io dalll’orfanotrofio, solo per un paio di giorni.
 Due mie sorelle sono rimaste a Moglie di Mantova, si sono fatte suore, le due maggiori sono rientrate a Ca’ Cappellino».

Alluvione Polesine 1951
I bambini dell’asilo in braccio a don Pietro e ai militari. Successivamente è diventato “padre Pedro”, missionario in Brasile

Nestore Marangon, bambino, non ha vissuto subito l’emigrazione, anche se il trasferimento in Lombardia è figlio comunque di quella grande tragedia collettiva.
Il suo racconto è quasi un romanzo: «Da Monselice sono stato spostato dai salesiani a Ravenna, c’erano posti in falegnameria e tipografia, ho scelto tipografia, al terzo anno sono stato premiato anche dall’onorevole Zaccagnini  per il buon profitto. Il ricordo del periodo al collegio di Ravenna è però molto brutto: sono stato ingaggiato come giocatore alla Sarom Ravenna, in un contrasto di gioco ho avuto un trauma renale. I collegio ho visto preti che se la facevano con i bambini più deboli, ho denunciato: ne hanno mandati via due che saranno andati a far di peggio, a me mi hanno messo per tre mesi in punizione».

I duri anni in collegio hanno dato come frutto un futuro lavorativo da tipografo compositore, a mettere insieme le pagine: «Finiti cinque anni di scuola da tipografo, sono tornato per poco a Ca’ Cappellino: avevo 17 anni e una mezza fidanzata di 20 anni, che mi ha portato ad Arsago Seprio». In zona ha trovato posto in una tipografia di Busto Arsizio: «Facevo la composizione del Tigrotto della Pro Patria, il giornale sportivo, i giornali parrocchiali».

Ha sempre vissuto ad Arsago, un paese dove tanti abitanti vengono dalle varie zone del Veneto e che hanno costruito questa zona fatta di tante aziende e capannoni. Oltre ai Marangon, anche altri sono arrivati dal Polesine ad Arsago, dopo il 1951.

Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it

Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare a VareseNews.

Pubblicato il 13 Novembre 2021
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