Riflessioni amare di un infermiere: “Assisto allo scempio quotidiano della sanità pubblica”

Un infermiere iscritto alla Cisl descrive la sua realtà lavorativa: negli ospedali pubblici pare contino solo i numeri e le prestazioni, al di là delle persone che sono innanzitutto gli ammalati

L’opera di Ravo all’ospedale di Varese

(nella foto il murales realizzato da Ravo Mattoni)
I progetti di sviluppo della sanità con la riforma della legge lombarda, le sfide lanciate con il PNRR di potenziamento della medicina del territorio e i piani di recupero delle attività sanitarie rimaste sospese a causa dell’emergenza sanitaria delineano un quadro progettuale importate, che si scontra, però, con le difficoltà di un comparto che fa i conti con carenza di personale, fuga dei professionisti e burn out. La lettera di un infermiere che si dichiara “iscritto alla Cisl” e che denuncia scenari


Sono un infermiere, abito e lavoro in Lombardia.
La mia è una bella professione, inoltre l’ho anche scelta: fortuna che non tutti possono dire di avere.

Oggi, dopo l’ennesimo turno massacrante nel mio reparto, sono tornato a casa amareggiato, trascinandomi addosso il cronico, insopportabile, senso di impotenza di fronte allo scempio quotidiano che sta subendo la sanità pubblica in questo paese.

E’ nota la riduzione di prestazioni sanitarie negli ultimi due anni, il COVID ha avuto la priorità fagocitando tutte o quasi le attività ordinarie, la stragrande maggioranza delle quali fondamentali per la cura delle persone.
Per recuperare “il tempo perduto”, Regione Lombardia vuole che le ASST effettuino il 110% (va di moda!) delle prestazioni rispetto al periodo pre-COVID. Se le prestazioni sono ambulatoriali, queste sono ben remunerate ed in buona parte vengono fatte in regime di “extra-lavoro”; se sono interventi che prevedono un ricovero, questi vengono effettuati in orario di lavoro. Il tutto senza aumentare il personale, ovviamente.

Di fatto da un lato si incentiva il personale a svolgere attività extra per guadagnare qualcosa in più, sottraendolo alla disponibilità di effettuare lavoro all’interno dei reparti. Dall’altro lato si aumentano le prestazioni comprimendo al massimo attività di cura nelle corsie che sono già tutte al limite.

Esiste quindi un problema di “qualità” e di conseguenza sorgono dinamiche legate alla sicurezza. L’intensificazione delle attività riduce i tempi della cura oltre il lecito, a ciò si aggiunga la stanchezza dovuta all’eccessivo carico di lavoro (e agli straordinari) e l’errore, che è sempre lì dietro l’angolo, ci può scappare da un momento all’altro, come del resto viene rilevato da tutta la letteratura sul rischio clinico. Che nei reparti di degenza si lavori già al massimo o quasi delle possibilità, è un dato che noi operatori viviamo ogni giorno sulla nostra pelle, e si dimostra facilmente: curare più persone possibili è interesse di tutti, ma fare casistica, fare “numeri”, spremere la macchina per avere maggiore produttività è interesse di pochi noti. Significa prestigio e curriculum per il gruppo manageriale e la dirigenza, significa propaganda a favore dell’efficienza delle politiche per chi governa. Ma a quale costo tutto ciò?

Nel reparto dove lavoro, la “produttività” (numero di interventi) da un mese a questa parte è aumentata del 30-40% (!!!) con lo stesso personale di prima. Come si spiega questo aumento a costo zero? Si potrebbe spiegare in due modi:
1) prima ci giravamo i pollici per il 30-40% del nostro tempo (ma allora qualcuno deve spiegare il burn-out e le dimissioni di personale sanitario per raggiunti -e superati- limiti di esaurimento da stress lavoro-correlato),
2) si sono compressi i tempi di assistenza e cura e ridotta la qualità con potenziale aumento del rischio sulla sicurezza dei pazienti e dei dipendenti. Siamo decisamente e pericolosamente dentro il secondo caso. Al nostro costante e sottovalutato “grido d’allarme”, ci viene risposto (imposto) di rivedere l’organizzazione del lavoro (come se non lo avessimo fatto nel corso degli anni), per “adattarci” alla carenza di personale.

Le Aziende Sanitarie scrivono magnifiche carte dei servizi in cui celebrano la loro “mission” con al centro la persona, poi però affidano gli studi sulle tempistiche a Ingeneri gestionali, che possono dare un contributo, che saranno anche bravissimi, ma che se non calcolano la variabile “persona”, in una attività di cura (appunto) della persona, commettono una colpevole omissione.

Omissione o obbedienza ai diktat della politica regionale, che vuole ottenere dei risultati a tutti i costi, perché l’anno prossimo ci saranno le elezioni regionali? I Direttori Generali delle ASST (di nomina regionale) “obbediscono”, pena la fine della loro carriera (oltre ai sostanziosi “premi” economici). Molti Direttori dei dipartimenti “obbediscono”, perché in cerca di conferme o di promozioni. Anche noi infermieri ci aggiungiamo a questa lista di “signorSI”, costretti a dover “accettare” ogni decisione, consapevoli tuttavia che i nostri interlocutori principali sono gli ammalati nei letti, con tutti i loro bisogni, e non le statistiche e i grafici da incollare sui manifesti elettorali del politico di turno.

Purtroppo ogni nostra “lotta” per lavorare in sicurezza e con qualità, è vana. E qui torniamo all’amarezza. Amarezza di non poter garantire il soddisfacimento delle necessità dei pazienti. Ne va della loro dignità, oltre che dei loro diritti, ma anche della nostra, di dignità. Dignità, SI, perché ci prendono in giro da anni con il parametro dei “minuti di assistenza” per i pazienti, diversi secondo il grado di intensità delle cure. E’ un parametro antico e superato (che non dovrebbe nemmeno servire per definire il numero di addetti di un reparto e invece serve addirittura come parametro fondamentale per accreditare una struttura). Addirittura è ritenuto il “pilastro” della legalità: “se ci sono quei numeri, noi (le aziende) siamo a posto e arrangiatevi voi nei reparti!”. Oramai “i numeri”, negli ospedali siamo diventati noi operatori, soprattutto nei reparti di degenza. La “politica” in questo ha delle enormi responsabilità, ma anche il nostro Ordine Professionale non è che si stracci le vesti, mentre il sindacato è impotente, perché “non è materia contrattuale o di confronto sindacale”. Per gli organi di informazione non è argomento di spicco, tranne quando purtroppo capita qualche caso di mala-sanità. Tra i centomila di sanità “buona”.

L’epidemia di COVID ha esasperato una situazione che andava già corretta in precedenza, ma ora ci vuole responsabilità. Non bisogna vivere come una colpa l’epidemia, mica ce la siamo cercata, ma non bisogna neanche pretendere l’impossibile, (a meno che si vogliano deliberatamente programmare dei rischi). Occorre che tutti facciano del problema della sanità il loro problema, occorre agire con sinergia e serve il supporto dell’opinione pubblica, della politica onesta e leale, del sindacato, degli Ordini, secondo i rispettivi mandati.

Quello dell’assistenza ai malati è un tema da trattare con priorità assoluta ma allo stesso tempo con delicatezza, col rispetto delle persone malate e degli operatori (che tra l’altro non sono tutti venticinquenni neo-laureati) e non con l’ingordigia, l’avidità di potere e la fretta. Ci vuole un po’ di “anima”.

Si sarà capito che quello che ho scritto non è il frutto di “un pomeriggio” andato male, ma il risultato di una situazione ormai cronica. Per ogni patologia studiamo pagine e pagine di assistenza alla persona, che riguardano gli aspetti sanitari e non solo, ed è frustrante constatare che la qualità, che sapremmo offrire, gli interventi assistenziali che dovremmo fare, non li possiamo dare. Esigiamo dare più qualità alla nostra assistenza!

A quanto pare quelle pagine sono state bruciate. Ma a favore di chi?

G.A., un infermiere qualunque

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 09 Giugno 2022
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