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La questione frontalieri va vista nell’insieme delle problematiche del nostro territorio di frontiera

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La questione frontalieri va vista nell\'insieme delle problematiche del nostro territorio di frontiera
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20 Aprile 2016

Egregio Direttore,
Ormai a cadenze puntuali torna a galla la questione “frontalieri”, da una parte e dell’altra della frontiera, soprattutto in prossimità di scadenze elettorali. Ultimi temi caldi sono la revisione dell’Accordo italo-svizzero in essere sul lavoro transfrontaliere e la conseguente imposizione fiscale, nonché il pagamento, che prima sembrava dovuto, poi non più, di una quota d’iscrizione al SSR.
Da una certa parte svizzero-ticinese tali lavoratori, ormai circa sessantamila, vengono visti sempre più come dei concorrenti sleali dei dipendenti residenti in loco, in quanto sarebbero disposti a lavorare per un salario più basso di quanto ritenuto necessario per una vita dignitosa in terra elvetica. E quindi in Ticino i predetti, che accusano i frontalieri di sottrarre il lavoro ai locali mediante una logica di dumping salariale, ritenendo addirittura di mantenere una buona fetta di Lombardia tramite tali lavoratori, sono i primi a chiedere una revisione dell’imposizione fiscale vigente, aumentando la quota di imposte da trattenersi in Svizzera. Dall’altra parte i frontalieri lamentano costantemente, a fronte dei sacrifici quotidiani sopportati (tipo alzarsi alle prime luci dell’alba per sobbarcarsi lunghe code sulle strade di frontiera), sia un trattamento da lavoratori di serie B, sia una mancata tutela adeguata da parte delle istituzioni italiane, malgrado l’innegabile contributo che i loro redditi e i loro ristorni danno ai nostri territori.
Ora io credo che ormai la questione frontalieri necessiti un’analisi approfondita, che non può comunque prescindere dalle complessive problematiche e particolarità che caratterizzano un territorio di frontiera come il nostro.
Per esempio il frontaliere, che non è esattamente paragonabile agli italiani che in passato andavano a lavorare nella Marcinelle di turno, nella stragrande maggioranza dei casi è di fatto una persona che acquisisce istruzione, formazione ed esperienza professionale da questa parte della frontiera, cioè con costi a carico del sistema Italia, realtà dove continua a risiedere con la famiglia. E buona parte dei medesimi sceglie poi di lavorare oltre frontiera non tanto per necessità pratica, cioè mancanza di lavoro nel paese d’origine, ma perché a parità di lavoro il salario è pressoché doppio. Mi riferisco in particolare al personale paramedico (infermieri, fisioterapisti, ecc.), che risulta addirittura carente nelle nostre zone, pur in presenta di centri di formazione universitaria, tanto che in alcune strutture convenzionate gli stranieri costituiscono quasi il 90% di tali figure, mentre abbonda nelle pari strutture sanitarie e/o socio-sanitarie ticinesi. Ma poi appunto il 70% delle imposte da loro versate, essendo trattenute alla fonte, rimane già in Svizzera, e proprio ciò sembra ormai non bastare più agli svizzeri stessi. Se ricordo bene, e non dico quindi inesattezze, invece lo Stato francese, per ciò che attiene ai propri frontalieri che lavorano in Svizzera romanda, che sono circa ben ottantamila, incassa direttamente le imposte dovute dai medesimi, applicando le proprie aliquote fiscali, ristornando successivamente quanto dovuto alla Confederazione Elvetica.
Quindi a mio avviso i frontalieri sono purtroppo un altro degli svariati canali attraverso i quali, da almeno cinquant’anni, per colpe e miopie gravi del sistema Italia, importanti risorse lasciano le nostre terre per arricchire in primis il Canton Ticino (qualcosa con la Valtellina interesserà anche il Canton Grigioni). Come infatti non ricordare l’epopea del contrabbando di caffè e sigarette, che saltuariamente qualche esponente della cultura popolare ci ricorda. Ma soprattutto è probabilmente con gli anni 70’, cioè con gli shock petroliferi, gli “anni di piombo” e le tensioni sociali relative, l’iperinflazione, la svalutazione della Lira e gli scandali bancari/finanziari, che comincia l’imponente emorragia di capitali (che ha reso Lugano un centro finanziario di prima importanza), il pendolarismo del carburante, e quello appunto dei lavoratori (gli Accordi Italo-Svizzeri in fase di ridiscussione se non erro sono del 1974). Mi ricordo bene io stesso poi, negli anni 80’, la moda dello shopping hi-tech oltre frontiera, quando i giocattolini degli italiani erano le autoradio, i videoregistratori e gli impianti hi-fi. Per arrivare infine, a cavallo tra i 90’ ed il nuovo millennio, con l’accentuarsi del declino del sistema Italia, al fenomeno della delocalizzazione in terra ticinese di intere imprese, ciò che sicuramente ha trainato come conseguenza l’incremento ultimo vertiginoso dei lavoratori frontalieri. Come ciliegina sulla torta, visto che a scadenze puntuali qualche programma satirico se ne ricorda pleonasticamente, possiamo anche rammentare il fenomeno del pendolarismo legato alla (quasi) legale industria del sesso svizzera, la cui clientela è composta per almeno il 70/80% di italiani.
Pertanto, dal momento che la Svizzera è comunque uno Stato sovrano, con le proprie norme e regole, molto flessibili proprio in materia di diritto/mercato del lavoro, e, buon per lei, non fa parte dell’UE, mi risulta un po’ difficile comprendere la pretesa di dire loro ciò che devono fare in casa loro. Invece la preoccupazione logica di tutti dovrebbe essere come trattenere e recuperare nei nostri territori le predette importanti risorse di varia natura, cioè umane/economiche. E la risposta non sembra neanche così difficile, dal momento che abbiamo l’esempio unico, e tutto sommato funzionante, malgrado le complicazioni tipicamente italiche (disfunzioni periodiche, impossibilità dell’utilizzo con il self-service, bizantinismi come la divisione in fasce di sconto), della “tessera sconto benzina”. Proprio difatti l’introduzione di tale procedura, aumentando il volume complessivo del fatturato degli operatori del settore, per anni schiacciati dalla concorrenza svizzera (e dal peso fiscale italiano), ha addirittura consentito agli stessi di portare avanti attività parallele, come autolavaggi, officine, bar/edicole, cioè di creare un indotto, con benefici per tutta la filiera, compreso il fisco.
E dunque per chiudere, non si capisce quali difficoltà abbiano impedito sino ad oggi la creazione, nelle Provincie di confine, una vera e propria zona franca, con tassazione parificata ai territori svizzeri di beni, servizi, imprese e lavoro. Cosa che molto probabilmente avrebbe impedito il sorgere di questa sorta di pericolosa dipendenza dalla Svizzera-Canton Ticino, che si è venuta a creare con il fatto che la vita di ben sessantamila persone e relative famiglie dipende dall’attività svolta oltre frontiera.
Si ringrazia anticipatamente per l’attenzione,
Giuliano Guerrieri

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