Significato e valore della “Giornata della Memoria”
25 Gennaio 2012
Egregio direttore,
Ha senso, col passare degli anni, aver trasformato in un adempimento di legge una celebrazione così delicata e, d’altra parte, così necessaria come quella della “Giornata della Memoria”? A questa domanda si può e si deve rispondere che molto difficilmente il ricordo della Shoah diventerà una celebrazione rituale, tali e tante sono le questioni storiche, filosofiche e morali che un simile evento solleva.
Basta, infatti, allineare sul piano storico le tappe che hanno condotto all’Olocausto, dalla Conferenza del Wannsee, che il regime nazista convocò il 20 gennaio 1942 per discutere la «soluzione finale della questione ebraica», al campo di sterminio di Auschwitz come luogo, ad un tempo, reale e simbolico di questa notte della storia, per comprendere quanto sia complessa e impegnativa la ricerca della risposta alla domanda sulle cause e sulle motivazioni della Shoah. La ricostruzione storica, come è noto, le individua nello sviluppo dell’antisemitismo tedesco ed europeo, nel funzionamento della macchina nazista che ha prodotto i campi e lo sterminio, nel ruolo di Hitler e dei diversi ‘esecutori’, mentre, dal punto di vista storiografico, esistono varie interpretazioni che si possono riassumere essenzialmente nell’approccio ‘intenzionalista’, che legge la “soluzione finale” come la diretta conseguenza dell’antisemitismo di Hitler e della sua politica, e nell’approccio ‘funzionalista’ per cui lo sterminio sarebbe scaturito da una serie di avvenimenti non deliberatamente pianificati. Lo storico Raul Hilberg, ad esempio, ha messo in luce il concetto di macchina, di apparato, in cui il ruolo di Hitler resta rilevante, ma all’interno di processi più vasti. Una sintesi fra i due approcci si deve in particolare al sociologo Zygmunt Bauman, il quale vede l’Olocausto come prodotto della modernità, cioè come rapporto tra intenzionalità di sterminio e uso dell’ingegneria sociale, dell’efficienza tecnologica e della burocrazia. La violenza legale, la divisione del lavoro, la separazione tra ebrei e non ebrei hanno creato, secondo questo studioso, le condizioni che hanno reso possibile lo sterminio di massa.
Vi è infine un ulteriore dibattito storiografico (omettendo per la sua strumentalità quello sulla contabilità delle vittime) che riguarda la responsabilità del popolo tedesco nel genocidio: un dibattito che peraltro riguarda, eccezion fatta per alcune coraggiose minoranze, anche il “consenso” più o meno passivo di larghi strati del popolo italiano, dal momento che il regime fascista, a partire dalle leggi razziali del 1938, ha attivamente collaborato con quello nazista nella discriminazione, nella persecuzione e nel tentativo di annientamento degli ebrei.
La rassegna, sia pur breve, degli eventi storici e delle interpretazioni storiografiche concernenti la Shoah è sufficiente, da sola, a dimostrare che la “Giornata della Memoria”, lungi dall’essere un adempimento formale più o meno automatico della legge che l’ha istituita, sarà sempre motivo di conflitto tra chi vuole cancellare e chi vuole ricordare quegli eventi, tra chi li vuole spiegare attraverso la conoscenza storica e chi li vuole immergere nella nebbia di una memoria generica e meramente pietistica. La controprova di questa asserzione è costituita da una circostanza molto significativa, e cioè che la ricorrenza della giornata coincide con il giorno della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa dell’Unione Sovietica (27 gennaio 1945). Sottolineare questo dato storico in relazione alla “Giornata della Memoria” significa anche rifiutare la falsa equiparazione, che una propaganda martellante ha cercato di radicare nelle menti, tra tutto ciò che è accaduto nel ventesimo secolo, come se fosse possibile, ricorrendo a quella categoria ‘passepartout’ che è il ‘totalitarismo’, mettere sullo stesso piano il nazismo e il comunismo e obliterare la radicale diversità fra queste due grandi vicende del Novecento. Ma ciò dimostra ancora una volta che, a causa della portata storica del suo significato, se vi è una ricorrenza che non diventerà mai rituale è proprio questa.
Qualcuno si è spinto sino ad affermare che la memoria non è un dovere, ignorando, il che è molto grave, che la storia, nella tradizione occidentale, nasce come sforzo per salvare gli eventi del passato dall’oblio, ossia, in definitiva, dalla morte. Il compito della storia è invece esattamente la memoria. È proprio assolvendo tale compito che la storia, definita giustamente da Alessandro Manzoni “una guerra illustre contro il Tempo”, preserva la memoria dalla caduta nell’oblio. La memoria, si sa, è soggetta inevitabilmente ad affievolirsi con il passare del tempo, ma a tale proposito va detto che l’unica via per contrastare questo processo entropico, legato anche alla scomparsa delle vittime e dei testimoni della Shoah, è impegnarsi per mantenere l’iniziativa sul piano storico, culturale ed etico, nella consapevolezza che il valore universale della “Giornata della Memoria”, ciò che la rende unica e insostituibile, è la necessità di contrastare la recrudescenza, nella nostra società e nel nostro tempo, di atteggiamenti, comportamenti e politiche caratterizzati da pulsioni antidemocratiche e discriminatorie di esclusione sociale tendenti a colpire le componenti più deboli presenti nel tessuto civile del nostro Paese.
Primo Levi, vittima e testimone di quella atroce esperienza, ha scritto nella prefazione al suo libro “Se questo è un uomo” parole che spiegano in modo definitivo il valore universale della “memoria” e indicano con una chiarezza e una forza impressionanti il pericolo rappresentato dalla barbarie che ritorna. Si tratta di un monito che va tenuto ben presente da chiunque abbia a cuore il destino dell’uomo in una società democratica, solidale ed egualitaria: «A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano»
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