Emanuela Carniti ricorda la madre Alda Merini: “Quelle due ore in cui la nostra vita cambiò”
Ospite del liceo Cairoli di Varese, la figlia ripercorre tutte le fasi: all'infanzia ai primi successi poetici, dal matrimonio al tracollo. E spiega l'impulso irresistibile che portava Alda a scrivere le sue poesie

Emozionante incontro, venerdì 11 aprile, in Sala Montanari a Varese. Il liceo Cairoli di Varese ha ospitato Emanuela Carniti, primogenita della poetessa Alda Marini.
Intervistata da Manuela Osini, amica di lunga data della poetessa, Emanuela ha fornito un racconto intimo e diretto di una delle voci poetiche più apprezzate del Novecento. A scandire le fasi della vita la lettura di alcune poesie scelte dalla professoressa Carla Sorenina e recitate da alcuni suoi alunni.
Dall’infanzia e adolescenza, al suo rapporto con il padre, che l’avvicinò alla cultura, poi la parentesi dolorosa della Guerra in cui la sua famiglia sfollò nel Novarese : « La perdita maggiore per Alda fu lasciare la scuola dove non riuscì più a integrarsi. Una volta rientrata a Milano venne bocciata all’esame di italiano per il passaggio alla classe successiva. Una sconfitta che la tormentò per tutta la vita». È da questo vissuto ferito che inizia la scalata di un’anima sensibile e dotata.
L’ingresso nel mondo letterario
È negli anni Quaranta che Alda entra in contatto con i salotti letterari milanesi, tra cui quello di Spagnoletti, Manganelli ed Erba. Viene accolta come una promessa, la “mascotte” del gruppo: giovanissima, intensa, incostante, ma dotata di una profondità sorprendente. A vent’anni è già riconosciuta come una poetessa autentica. Lo stesso Pier Paolo Pasolini la definisce “la ragazzetta milanese”, stupito dalla maturità e dalla visione che traspare dai suoi primi versi.

Poesia come chiamata, non come scelta
Per Alda Merini la poesia non è mai stata una scelta razionale, bensì una forza esterna e travolgente. «Era qualcosa che la sovrastava – racconta Emanuela Carniti – non dipendeva da lei. Era un flusso improvviso che doveva tramutarsi subito in parole». Un impulso che divenne poi incompatibile con la vita quotidiana, con i ruoli di moglie e madre.
Dopo il matrimonio con un uomo semplice, un panettiere conosciuto per caso in un cinema, la vita familiare si rivela dura. La casa piccola, il lavoro sacrificato, una gravidanza a rischio. Merini tenta inizialmente di incarnare il modello della “brava donna di casa”, ma l’urgenza poetica prende sempre più spazio.
Ed è in questo contesto che avviene il mutamento doloroso, l’inizio della fine.
« Mio padre era fuori Milano per un lutto famigliare – ricorda la figlia – La sera non rientrò ma fece chiamare per avvisare del ritardo. La notizia destabilizzò mia madre. Più le ore passavano e più montavano in lei l’angoscia e l’inquietudine. Al rientro di mio padre ci fu il crollo: aggredì il marito con un ombrello per poi scoppiare in un pianto disperato. Incapace di gestire la situazione, mio padre si attaccò al telefono. Poco dopo arrivò l’ambulanza. Mia madre venne portata via con la camicia di forza, ricoverata al Paolo Pini, l’ospedale psichiatrico milanese».
Il dramma della psichiatria e l’isolamento sociale
Da quel primo ricovero in poi, la parabola di Alda Merini è segnata dalla fragilità mentale, dal manicomio e dai farmaci: «Le cure ti portavano via l’identità – racconta la figlia – Spesso era lei stessa a chiedere di essere ricoverata, sopraffatta dalla depressione”».
La poesia resta l’unico canale espressivo, l’unica forma di sopravvivenza. Ma la malattia segna anche la sua famiglia: le figlie vengono affidate a un collegio, lo stigma sociale colpisce duramente. “Eravamo le figlie della matta”.
Nel quartiere si crea attorno a loro un vuoto, e persino gli editori, nonostante gli sforzi della poetessa, si allontanano. Le infermiere sembrano carceriere, la madre è irriconoscibile, eppure le visite famigliari diventano un’ancora di salvezza: «Andavo anche da sola – dice Carniti – anche se non era uno spettacolo facile da sostenere».

Poesia come redenzione e condanna
Per Alda Merini la poesia è stata al tempo stesso maledizione e salvezza. «Ha trasformato il dolore in valore» sintetizza Emanuela Carniti, che da adulta diventa infermiera psichiatrica, come a voler chiudere un cerchio, a ricucire ferite antiche. “Chi sceglie un lavoro di aiuto spesso ha qualcosa da rimarginare”, ammette.
Il riconoscimento postumo dell’opera della Merini è, per la figlia, un riscatto doloroso ma necessario. Un invito, per chi resta, a trovare nella sofferenza la forza per costruire, trasformare, generare senso. E forse, anche bellezza.
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