Vita da esploratori, nel segno dell’Africa

Non solo archeologia ma etnografia e geologia nel lavoro dei gemelli Castiglioni. "Trovammo i reperti in Egitto, ma la nostra vera passione è il Sudan, la Nubia"

Almeno dieci anni delle loro vite i gemelli Alngelo e Alfredo Castiglioni, esploratori e archeologi, li hanno trascorsi in terra africana tra spedizioni etnografiche, documentaristiche, scavi ed esplorazioni fra gli aspetti di un continente contraddittorio, affascinante, terribile e splendido insieme. La terra madre dell’umanità, da dove "scimmie nude" scese (letteralmente) dal ramo partirono alla scoperta del mondo. Da qualche secolo è il mondo che riscopre l’Africa.

Per arrivare alle scoperte che hanno fatto ipotizzare di aver trovato traccia dell’armata perduta del re dei re di Persia Cambise II ci sono voluti cinque anni di ricerche. Non si tratta di uno sviluppo recente, in realtà. Il documentario presentato al festival del cinema archeologico di Rovereto lo è, da qui si è sparsa voce, ma i ritrovamenti risalgono al 1998. Non si fecero veri e propri scavi, anche perchè non ne aveva l’autorizzazione: era di fatto una spedizione geologica, ma seguiva una "traccia" fiutata da qualche tempo. Tradizionalmente, i vari tentativi di trovare i persiani dispersi nel deserto, «cominciati già all’epoca di Giambattista Belzoni» ricordano i gemelli, «seguivano la "linea delle oasi" che da Tebe si spinge attraverso Kharga in direzione di Siwa, a nord-ovest». Nulla però era emerso dal silenzio delle sabbie. I Castiglioni postulavano un itinerario indiretto delle truppe attaccanti, per evitare che dalle oasi precedenti si mettesse in allarme la destinazione ultima. «Si trattava di piste in parte già note in epoca faraonica, a quanto si sa, tuttora marcate con antichissimi alamat», mucchi di pietre che fanno un po’ da "cartelli stradali" nel mare di sabbia e pietre. Da Kharga la via si addentrava verso ovest in direzione del deserto libico e dell’altopiano di Gilf Kebir, salvo poi svoltare e nord. «Un altro elemento che ci incuriosiva» proseguono gli archeologi «era la posizione anomala dell’oasi di Siwa sulle mappe tolemaiche (III-I secc. a.C. ndr), dove compariva un centinaio di miglia più a sud di dove si trova in realtà».

Più o meno lì, tra piccole oasi e letti asciutti di laghi salati, dopo aver seguito una serie di antichi "punti acqua" poi disseccatisi, e riconosciuti come tali con l’ausilio del geologo Alì Barakat, i Castiglioni scoprirono un riparo naturale sotto roccia rivolto a nord. Cioè contro la direzione del feroce vento del deserto, il khamsin, che li spira da sud. Sotto quel riparo si celavano una fossa comune piena di ossa e una serie di oggetti di foggia persiana, «gli unici oggetti achemenidi ritrovati nel deserto».
Non vi furono scavi: tutto era nella sabbia, a pochi centimetri di profondità: bastava il metal detector per trovarli. Fu per lo più il geologo ad estrarre dapprima una punta di freccia, poi via via altri oggetti, una daga, braccialetti, un finimento per cavalli identico a quelli raffigurati sui bassorilievi di Persepoli, e così via. Oggetti in parte franati da una collinetta vicina sotto l’azione di qualche antico temporale. «Non era che un drappello della spedizione, se si vuole. Qualsiasi resto più grande, come carriaggi, armi eccetera, sarà stato saccheggiato e riutilizzato quasi subito dopo che l’armata fu dispersa dalle tempeste di sabbia». Tutti gli oggetti ritrovati furono poi debitamente fotografati e affidati alle autorità egiziane, e si realizzarono piantine del sito con l’indicazione precisa delle coordinate geografiche, dando notizia di tutto anche all’addett culturale dell’ambasciata italiana al Cairo. Del ritrovamento parlò il quotidiano più diffuso d’Egitto nel dicembre del 2000, poi il silenzio. La richiesta dei Castiglioni alle autorità egiziane di continuare le ricerche nella zona a sud di Siwa non ebbe risposta; da allora si concentrarono di nuovo sul lavoro in Sudan, dove le autorità sono più sollecite e i rapporti da tempo stabiliti. «Il nostro interesse rimane concentrato sulla Nubia, su Berenice Pancrisia», la "città dell’oro" scoperta vent’anni fa presso uno uadi (fiume in secca nel deserto) in una zona ricca di quarzi auriferi da cui l’Egitto tolemaico traeva le sue ricchezze. Senza dimenticare altri obiettivi ambiziosi: come, annunciano, la ricerca delle favolose miniere d’oro di re Salomone. Dove? Ovviamente in Etiopia, Paese in cui la tradizione copta è legatissima alla figura del mitico re d’Israele – i negus si proclamarono suoi discendenti diretti, e vi viveva una comunità, i falascià o Beta Israel, ebrei praticanti, oggi in gran parte emigrata in Israele.

L’annuncio del documentario in cui i gemelli presentano i ritrovamenti che ipotizzano legati all’armata persiana di Cambise, intanto, ha fatto il giro del mondo. «Se ne è interessata la Rai e poi ci hanno telefonato varie riviste e tv, da tutto il mondo. Dalla Spagna, con El Paìs, dai paesi anglosassoni, ma anche dalla Russia e dall’Iran. Perfino la Cnn ci ha contattati». Ma i Castiglioni, pur usi alla ribalta (sono apparsi più volte in tv nei decenni scorsi, presentando viaggi, popoli e scoperte), preferiscono tenere un basso profilo. Tantopiù per evitare polemiche sgradevoli, tra invidie e disinformazione, come si può leggere su Wikipedia in inglese. «È l’ultima cosa che desideriamo, lungi da noi, e questa è l’ultima intervista che rilasceremo per vitare polveroni (tanto per restare in tema ndr). Siamo ricercatori, lavoriamo per ritrovare le piccole tessere che compongono il mosaico della storia umana. Rispondiamo con la serietà del nostro lavoro, con l’autorevolezza degli archeologi che lavorano con noi anche nel comitato scientifico del CeRDO (Centro Ricerche Deserto Orientale, che Alfredo presiede), con quella dei critici che valutarono i nostri film e documentari». Ogni uiteriore discussione, fino ad approfondimenti scientifici ulteriori, è la classica tempesta in un bicchiere… di sabbia.

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Pubblicato il 25 Novembre 2009
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