Manovra, domani si vota la fiducia. Rossi: “Hanno i numeri, non la qualità”
Il governo ha posto il voto di fiducia sul maxiemendamento interamente sostitutivo del decreto legge. Il senatore del Pd: "Esecutivo propenso ad alimentare i brillanti riti e a suonare il piffero delle "magnifiche sorti e progressive"
Il governo ha posto la fiducia al Senato sulla manovra sostituendo il testo con un maxiemendamento. Il ministro per i rapporti con il Parlamento Elio Vito ha affermato che il governo attribuisce «straordinaria importanza» all’approvazione di questo testo. Domani mattina, giovedì, l’aula del Senato voterà la fiducia sulla manovra economica. Lo ha stabilito la conferenza dei capigruppo. Le dichiarazioni di voto cominceranno alle 9.30.
Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, intanto, interviene all’assemblea di Confcooperative sottolineando che si è ad " un tornante della storia, non solo per noi ma per tutti i paesi". L’austerità, ha aggiunto, "è una necessità che significa solidarietà e responsabilità". E ha ricordato che l’austerità è alla base della manovra che verrà votata domattina.
A tal proposito il senatore del Partito Democratico Paolo Rossi ha inviato una nota che critica il testo e i metodi utilizzati da questa maggioranza.
"Gli spunti, sinceramente non mancano. Siamo di fronte a un Esecutivo propenso ad alimentare i brillanti riti e a suonare il piffero delle "magnifiche sorti e progressive". Non certo abituato, e peraltro poco credibile, quando si rivolge al Paese in gramaglie a chiedere sacrifici; non abituato perché questo è un governo che non ha mai dismesso abiti e modi "gattopardeschi" (cambiare tutto perché nulla cambi…), che si muove consultando la bussola dei sondaggi e della comunicazione, che accorre laddove vi sia il caso mediatico conclamato – i rifiuti di Napoli per dirne una –, ma che latita dove non vi sia tale urgenza, come a Palermo. Siamo di fronte a una politica che rischia continuamente di redimere il falso, e che per converso è autenticata solo dalle sue dichiarazioni.
Sono sotto gli occhi di tutti la desolante trafila del caso Brancher, riforme salvapremier o che nel migliore dei casi sono razionalizzazioni mascherate volte solo al risparmio, effetti di una crisi troppo a lungo negata e rimossa. Sarebbe certo iniquo e ingeneroso cadere nella trappola che sempre s’aduggia nella dialettica parlamentare degli schieramenti: si è capito subito dapprincipio che una crisi di tale entità, fin dal suo affiorare, non è responsabilità di un governo o di uno schieramento. I problemi, se mai sono altri: e, in particolare, che tipo di risposta si voglia fornire a delle domande che vanno ben oltre il momento contingente e una situazione che sul medio termine rischia di creare, come in parte è già accaduto, insicurezza, disparità sociale, precarietà lavorativa (non tanto e non solo giovanile ma che coinvolge le faglie più fragili dei quaranta-cinquantenni che hanno non poche difficoltà di rimettersi in gioco), una povertà – per riprendere l’espressione di don Paolo Gessaga – «meno apparente, ma più profonda», diffusa e afona al pari della diseguaglianza.
Molto ci sarebbe da dire anche sul sistema dell’informazione nel suo complesso, anche a prescindere dalla legge sulle intercettazioni: nell’arco della stessa giornata, a commento dei più recenti dati Istat divulgati da ultimo, il TG1 annunciava la crescita del PIL come un timido accenno di ripresa, mentre il GR2 sottolineava un picco della disoccupazione salito a sopra l’8 per cento (cosa che non si verificava da trent’anni a questa parte). Non solo: il 2011, da questo punto di vista non promette nulla di buono, forse le cose cominceranno a migliorare dal 2012. È senza lavoro un giovane su quattro e un lavoratore su due ha un contratto cosiddetto atipico. Mi chiedo se questo sia lo stesso Paese in cui la voce del presidente del Consiglio, in uno spot recentemente realizzato, invita a trascorrere le ferie…
Io credo ci si sia per troppo tempo nascosti dietro un sistema che, messo sotto pressione e finita da un pezzo l’epoca delle vacche grasse, rischia di non credere più a quelle verità che stancamente ripete: è il sistema stesso, cioè, che deve essere ripensato nel profondo, e non tutto si può sempre giocare in funzione degli exit poll sulle prossime elezioni.
Di un governo che ha i numeri per cambiare l’Italia e che, non c’è telegiornale che non l’annunci sera e mattina, ha resistito meglio di altri Paesi alla crisi, vediamo solo uno spogliatoio litigioso e un far melina inconcludente senza afferrare il nocciolo del gioco. La Lega è disorientata dal vestire contemporaneamente i panni della forza di lotta e di governo, Fini e il suo gruppo scalpitano, governatori e industriali gettano il guanto di sfida, ma l’unica urgenza sembra quella di ridisegnare una legge sulle intercettazioni che, per la salvaguardia di pochi, ci fa tornare indietro di trent’anni, nel medioevo prossimo venturo. Tanto varrebbe, allora, riaprire le case chiuse, ripristinare il delitto d’onore e legalizzare la faida. La vecchia favola dei ricchi sempre più ricchi che faranno star meglio anche i poveri emerge oggi nella sua risibile iniquità. La classe media si assottiglia sempre di più e ormai abbiamo sotto gli occhi un Paese che ha il doppio dell’evasione fiscale rispetto alla media europea, e un governo, un po’ frastornato a giudicare dalle liti generate al suo interno, preoccupato solo di tutelare il proprio elettorato e che cerca di salvaguardarlo. Nel Paese delle Frecce rosse e d’argento il biglietto più salato continuano a pagarlo i dipendenti statali, pendolari dei trenini locali. Ma forse Brunetta ci dirà che è giusto così perché sono fannulloni.
Mi ha colpito, qualche sera fa, Claudio Baglioni, ospite presso il premio Rodolfo Valentino, perorare insieme con la causa di Telethon per la ricerca, l’equità e la dignità del pagare le tasse, vera e unica forma di giustizia sociale. Mi ha colpito perché un’affermazione così innocua è suonata, nella distratta e morbida acquiescenza del piccolo schermo, come qualcosa di eversivo, di rivoluzionario.
La Nazionale – scriveva Ilvo Diamanti dopo il crollo subito ai Mondiali – non è lo specchio della nazione e neppure del Paese. È uno specchio di comodo, appunto, in cui rispecchiarsi quando conviene, a seconda dei casi.
Una manovra finanziaria così concepita assomiglia più forse, in un Paese come l’Italia dove la «gestione della mediocrità», sebbene negata e invisa, è divenuta suo malgrado uno sport nazionale, ai tentativi, modesti e insufficienti, di arginare la marea nera nel Golfo del Messico. Questo governo sta offrendo risposte altrettanto inadeguate: senza un ripensamento della società nel suo complesso e senza il coraggio della volontà, fuori dalle logiche corporativistiche che fanno arenare qualunque anelito riformistico, non si andrà lontani. Questo rimane un Paese a due velocità: tapperemo una falla oggi per vederne affiorare innumerevoli in un prossimo futuro, quando la lentezza e i ritardi di piccoli treni si ripercuoteranno sulle più lunghe percorrenze cui sono legate fiducia e speranza nel domani.
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