Il mito Dominguez illumina Giubiano

Il grande ex mediano della nazionale si è allenato con i giocatori del Varese e ha spiegato la sua ricetta per il futuro: «Oggi si punta troppo alla fisicità, torniamo a insegnare il gioco creativo. Senza dimenticare i valori di questo sport»

diego dominguez rugby giubiano novembre 2010Grande festa al “Levi” di Giubiano per il Rugby Varese che ha ospitato per un allenamento Diego Dominguez, indimenticabile stella della Nazionale Italiana (con cui vanta 71 gare ufficiali e 959 punti realizzati). L’incontro, fortemente voluto dal presidente Stefano Malerba e reso possibile dall’impegno di Francesco Pierantozzi – commentatore di Sky ed ex giocatore del club biancorosso – è stato l’occasione per i più piccoli di avere un autografo o una fotografia con il campione, per i più grandi – under 20 e prima squadra – di allenarsi insieme a un giocatore che ha fatto la storia della palla ovale italiana e mondiale. Arrivato in ritardo al campo sportivo – per la prima volta in carriera, ci tiene a sottolineare – a causa di una partenza ritardata dagli studi di Sky Sport e del conseguente traffico in tangenziale, Dominguez si è cambiato (indossando una tuta dei suoi rugby camp, rigorosamente con il numero 10, e gli scarpini, ingrassati e lucidati a dovere) e, sotto il diluvio, è corso a prendere parte all’allenamento. Dopo essersi scaldato agli ordini dell’allenatore neozelandese John Akurangi, l’argentino ha radunato i trequarti della squadra per insegnare loro qualche trucchetto del mestiere.
Al termine della seduta, dopo la necessaria doccia per togliersi di dosso il fango del campo, immancabile il “terzo tempo”: la serata si è così chiusa con una robusta mangiata in compagnia, accompagnata dai rituali boccali di birra.

Diego, innanzitutto, cosa conosce della squadra di rugby di Varese?
«Ho saputo tante cose parlando con Francesco. Mi ha raccontato la storia, lo spirito e i progetti che la società sta portando avanti, ad esempio sui nuovi campi: questo è fondamentale, i club devono investire tutte le risorse disponibili nelle strutture e nella formazione. Se le società fanno questo, si garantiscono una "pensione a vita": passano i presidenti, passa la gente, ma il campo rimane sempre, e le strutture ti portano i giovani a cui insegnare il gioco».

Qui a Giubiano sono arrivati tanti ragazzi per conoscerla, lei inoltre lavora molto con i giovani nei Rugby camp che organizza. Le piace così tanto insegnare il rugby?
«Sì, molto. Mi piace poter trasmettere lo spirito e l’educazione che ho imparato da giovane. Ho fatto il dilettante, il semiprofessionista e ho giocato anche nel professionismo ad alto livello: conosco tutte le tappe e dico sempre che la base deve essere dilettantistica. Ai ragazzi cerco di insegnare i valori del rugby, valori che nessun altro sport al mondo ha: il coraggio, essere pronti a rischiare per un compagno, essere sempre consapevole di far parte di un gruppo, di una squadra, saper reagire ai momenti buoni e a quelli meno buoni».

diego dominguez rugby giubiano novembre 2010In provincia di Varese è stata creata una selezione Under 20 con i migliori giocatori raggruppati sotto una stessa maglia: come le sembra questa iniziativa?
«È un’ottima idea. Questa squadra è la raccolta delle espressioni di ogni piccola società: da sole non potrebbero andare avanti ma che raggruppate formano un soggetto più forte».

In Italia il rugby ha avuto, negli ultimi anni, un’esplosione sia come seguito sia come nuove leve. Perchè?
«
Il rugby, nel mondo, è uno sport molto popolare: la Coppa del Mondo di rugby è il terzo evento sportivo a livello mondiale ed è giocato in tantissime nazioni. Uno sport che è rimasto ancora pulito e che va mantenuto sano, lontano da qualsiasi inquinamento: tutti gli sport professionistici, se non si sta attenti, se i dirigenti non sono forti, rischiano di essere inquinati. Dobbiamo essere bravi, guardare agli errori che hanno fatto altre discipline arrivate prima al professionismo e non commetterli anche noi».

Da quando lei ha smesso è cambiato molto il rugby di alto livello?
«Molto, anche in positivo. Sicuramente posso dire che quando giocavo io si puntava sull’abilità, sulla tecnica. Forse oggi si punta troppo sul fisico ma, in fondo, il rugby è un gioco di intelligenza e di coraggio. È importante tornare a dare spazio alla creatività».

Dove può arrivare il rugby italiano?
«Molto lontano. L’unico problema è che le cose sono successe molto velocemente, e quindi è difficile avere il tempo di riflettere. Questo è il momento di sederci a tavola insieme, riflettere e scrivere insieme il futuro».

Parliamo del suo marchio di fabbrica, i calci piazzati. Ottenere certi risultati è solo questione di talento o è un fondamentale che si può allenare?
«Sicuramente bisogna avere le condizioni naturali. Una volta che hai quelle devi anche essere forte di testa, per non farti abbattere da un calcio sbagliato o dalla responsabilità che hai all’interno della squadra. Ci vuole coraggio: nel rugby senza coraggio non si può giocare neanche un secondo, è la principale qualità necessaria».

È possibile isolare il ricordo più bello in assoluto, in una carriera come la sua?
«Sono tanti: ho giocato per più di 20 anni… La prima volta con la maglia del club che mi ha formato (La Tablada di Cordoba, Argentina n.d.r.), la prima tournée, la prima selezione giovanile. Poi gli scudetti vinti, la prima partita e le vittorie con la nazionale… Sono davvero tantissimi».

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Pubblicato il 19 Novembre 2010
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